LA SCUOLA E LA PANDEMIA

*di Daniela Novi e don Mario Simula*
Caro don Mario,
quando a marzo la scuola è stata sospesa a causa della pandemia, in un primo momento sono stata contenta di restare a casa, di non alzarmi presto per prendere il pullman, di dormire un po’ di più, di stare più tempo incollata al telefono, per chattare o giocare. Quando, però, la situazione è diventata sempre più grave e, oltre a non andare a scuola, non potevo neanche uscire, quando la paura di morire ha iniziato a insinuarsi nella mente, nelle ossa e negli occhi spaventati di mia nonna, quando le notizie del tg non lasciavano spazio  all’apertura né del cielo né della terra, oppressi dal grigio della pioggia e dal silenzio della solitudine di un uomo vestito di bianco a piazza san Pietro, allora ho iniziato ad essere sempre più nervosa e preoccupata. Aggiungi a tutto questo che la scuola, dopo pochi giorni di pace, ha iniziato la famigerata didattica a distanza, per tutti DAD, con collegamenti quotidiani via web con i professore, compiti, lezioni e interrogazioni. Davanti allo schermo ogni giorno si materializzavano i busti colorati dei miei compagni di classe, che sembravano vicini, ma che, come quelli di marmo in un museo, non potevo toccare, con cui non potevo giocare o anche solo mangiare un panino. Quando poi la connessione non riusciva e sprecavo mille tentativi per entrare ed uscire dalla piattaforma, neanche quel pezzo di vita mi era concesso. Grazie a whatsapp con gli amici ci scambiavamo idee, commenti e, lo confesso, qualche volta anche i compiti, ci facevamo delle confidenze, che però erano patrimonio di tutti e a me mancava quel minimo di privacy necessaria a commentare una mia vicenda personale, come facevo in classe con la mia compagna di banco.
Che strano, tutti noi studenti eravamo seduti comodamente nelle nostre camerette, ma la poltrona o il letto ci bruciavano sotto e il desiderio di incontrarci e di parlarci dal vivo superava il fascino dello schermo che ci teneva in posizione orizzontale. Neanche l’inquadratura delle foto tridimensionali da pubblicare su Fb, neanche le 24 ore di una “storia” postata su Instagram bastavano a calmare il desiderio di essere spazio e tempo fuori dalle mura di casa, fuori da me per essere altro, per essere altri.
A Pasqua la preside inviò un videomessaggio a tutti noi per salutarci e, non so per quale assurdo motivo, goccioloni di lacrime mi sgorgarono sugli occhi. Mi immaginavo nel mio piccolo banco a far finta di ascoltarla e quasi per miracolo capii che mi mancava la scuola, mi mancavano i prof, I miei compagni, ma soprattutto mi mancava l’aria che respiravo lì dentro, mi mancava la “me” che guardava attraverso l’oblò disegnato sul muro delle scale e che immaginava di essere realmente in viaggio, in un qualsiasi posto del mondo, spensierata, libera, felice…” Tuttavia, non potendo uscire, ho iniziato a guardarmi intorno, per cercare se c’erano crepe nel muro da cui evadere e piano piano ho iniziato a osservare con più attenzione i confini della mia casa, le forme dei mobili, la scelta dei posti dove erano collocati gli oggetti, i lineamenti delle persone intorno a me, troppo spesso ignorate nel vociare della rete, nelle connessioni di legami virtuali. Lo sguardo di mia madre, la ruga sulla fronte di mio padre, le sopracciglia folte di mio fratello, tutti frammenti di un unico discorso d’amore, compresso nello spazio di un salotto e nell’ampio orizzonte di una scelta. Forse, pensai, potevo affidarmi
anche a qualcuno di loro, forse potevo dondolare dal trapezio dei miei sogni e al momento di saltare pensare di afferrare delle braccia
che ti aspettano o di sapere che sotto c’è una rete su cui cadere… E così ho aperto uno spiraglio nel silenzio della comunicazione faccia a faccia e la luce è entrata dal buco della porta del mio silenzio: una parola dopo l’altra, come quando tiri il fazzoletto dalla giacca del piumino ed esce tutto il contenuto della tasca. Ero ascoltata e mi piaceva ascoltare, ero capita e, se non capivo, la diversità mi sembrava comunque logica e accettabile. Forse in casa c’era più di un’amica e meno di una madre, forse c’era un oltre rinchiuso anche nel lockdown, che sapeva di me molto più di quanto io stessa pensassi…

La quarantena mi ha cambiata. Per quanto riguarda gli altri ora ho degli amici con cui posso confrontarmi e posso aprirmi, mentre prima per i miei discorsi avevo paura di risultare una povera illusa o una masochista o menefreghista. Tuttavia ho imparato anche a stare da sola, a capire meglio me stessa e ciò che voglio, a guardare lo spessore delle cose oltre le cose, a sollevare lo sguardo oltre lo schermo di un cellulare, a togliere le cuffie per cantare una canzone insieme agli altri, a riconoscere il valore del bene nella nostalgia del bene, a cadere e a rialzarmi più forte di prima. E a chi pensa che un virus ci tenga lontani, forse l’amore per sempre ci renderà più sani?
Anna Martina

Cara Anna Martina,
non te la prendere. Proprio perché non ti conosco, non te la prendere. Ho avuto un pensiero come un lampo mentre leggevo la tua lunga
lettera: Anna Martina nella “clausura” del lockdown ha affinato la sua scrittura. Il tuo testo è interessante, detto bene. Da ragazza che
è cresciuta. Miracolo della pandemia! O miracolo del silenzio. Chi lo saprà mai? Anna Martina, veniamo a noi. Hai capito come si fa a svezzarsi dal letto sempre sfatto e disponibile? E’ sufficiente poterci rimanere fino ad ammuffire. Hai capito come ci si può stancare della musica a tutta birra, insolente e anestetica? Basta poterne fare un’overdose. Chiusi controvoglia, si ridimensionano le voglie. E’ sempre così. La sbronza spezza le gambe. La “roba” consuma il cervello. Il ragazzo sempre incollato diventa una paranoia. “Gli amici mattina sera e notte” ti asfissiano. Potrei continuare. Abbiamo cantato dai tetti. Siamo diventati patrioti per qualche giorno, tutti. Tutti abbiamo sposato uno slogan incoraggiante: “Andrà tutto bene”.
Invece nulla ha scoraggiato il Covid-19: andrà tutto bene. Infatti…. Che straordinario personaggio questo virus! Non guarda in faccia a
nessuno. Non bussa alla porta per entrare. Lo acchiappi per una zampa e sfugge. Eppure, nella sua insensata logica il “corona virus” ci ha aperto la testa e forse un poco anche il cuore. Dì la verità, Anna Martina, che fa un certo effetto accorgerti che hai una casa, una famiglia, un padre che sa sorridere, una madre e un fratello.
Capita di stare accanto per anni, ma la fantasia è altrove. Il pub, il sabato sera, l’immancabile discoteca, le grida per strada, gli scherzi un po’ arditi, gli angoli appartati per rifugiarci col ragazzo. Hai sperimentato che tutto può diventare virtuale, cibo prelibato per la curiosità di tutti, ridimensionato da una mascherina che sembra una camicia di forza pronta a penalizzare baci e abbracci. Uno stress, una penitenza. E se fosse un’opportunità? Se non confondi ciò che sto per dirti con una predica, mi permetto di lanciare qualche slogan.
Slogan numero uno: Da soli come mai visto prima è una “figata”. Esisto. Proprio così: esisto. Pelle ossa e polpa. Con gli occhi, il naso, le
orecchie, i fianchi. Esisto senza trucco, come sono uscita dalla pancia di mamma. Esisto. Per capire che esisti occorre avere tempo per accorgersene. Esisti come un prodigio. Annama’, sei un prodigio.

Slogan numero due: Che sorpresa i babbi! Questi oggetti misteriosi si
svelano. Lo devo riconoscere: mio padre non è niente male. Chi si era mai accorto che fosse anche simpatico, disteso, rilassato. Con le orecchie aperte. Curioso di sapere questa sua figlia “invisibile”. Annama’, hai trovato tuo padre.

Slogan numero tre: Anche le mamme non sono male. Purché restino madri. Nient’altro che madri. Di amici e amiche ne abbiamo tanti. Di madri no. Annama’, guarda quanto è bella e dolce tua madre.

Slogan numero quattro: Il silenzio è un contenitore di meraviglie. Prendilo come uno scrigno del meglio di te. Forse troverai anche qualche sorpresa che può non piacerti. Siine felice. Noi valiamo tanto di più, quanto più ci conosciamo, anche nelle ombre. Ricorda che ogni conoscenza di te stessa è una conquista che ti fa appartenere a te stessa. A nessun altro. Gli altri entrano nella nostra vita passo dopo passo, non come una cavalleria all’arrembaggio. Il silenzio è una straordinaria terapia contro il grigiore quotidiano e contro le cose “sempre le stesse”.
Slogan numero cinque: la natura ha detto grazie al Covid-19 perché ha tenuto gli uomini alla larga. La natura che rivive, che respira, che supera le polmoniti bilaterali da inquinamento ostinato. Sai cosa penso Annama’: fossi in te mi farei paladina di una condizione ambientale più umana, più pulita, più respirabile, più limpida. Il vantaggio sarebbe che tu diventassi capace di contemplazione di ogni particolare che ti circonda. Ti accorgeresti anche di una coccinella in un fitto incrocio di erbe spontanee. Diventi la piccola goccia non indifferente e inutile nell’oceano. Se sai coinvolgere i tuoi amici l’affare è fatto. Anna Martina, il Covid-19 passerà, purtroppo dopo aver seminato tanto dolore. Ma un Covid ritornerà se l’uomo, cioè io e tu, non cambia testa.

Virtuale ma non troppo

Domanda

“Seguo la vostra “parrocchia virtuale” da quando è nata. Mi è sorto alcune volte un dubbio: non si rischia di sostituire i rapporti “reali” con rapporti “virtuali” (quindi non esistenti realmente!!)?

Mario

Risposta
Carissimo Mario, Grazie per averci espresso la tua perplessità riguardo la “parrocchia virtuale”. Quello di cui parli è un rischio che si corre se si rimane fermi nel virtuale e ciò che in questo ambito si vive non viene vissuto realmente nella vita. Come hai potuto vedere sulla pagina facebook della parrocchia virtuale le iniziative cercano di tendere sempre ad incontri fisici tra le persone per creare proprio quello spirito di comunione che in rete, appunto, rischia di rimanere solo qualcosa di virtuale. Inoltre, questo mezzo vuol essere anche e soprattutto uno strumento di riflessione sulla vita del cristiano attraverso diversi spunti che pubblichiamo di tanto in tanto. La rete è intesa da noi come punto di partenza per poi poter arrivare a qualcosa di reale e di profondo e infine per poter approfondire sempre di più il mistero di Cristo
attraverso tutti.

È necessaria tutta questa ricchezza?

339893*di don Tonino Lasconi*
Caro Don Tonino, vado molto in chiesa. Ultimamente mi è capitato di pensare, soprattutto dopo essere stato in san Pietro: “E’ necessario tutta questa ricchezza di beni materiali per celebrare Dio?” (Marco 16 anni)

Caro Marco, la risposta secca sarebbe un deciso: “no”. Però, un giovane che si fa queste domande cerca sicuramente qualcosa di più ragionato. E allora ragioniamo, partendo dal tuo “soprattutto dopo essere stato in san Pietro”, che indica chiaramente una direzione precisa: la ricchezza del Vaticano. Chissà quante volte avrai sentito anche tu la frase che circola un po’ in tutti gli ambienti e in tutti i discorsi: “Il Vaticano ha un sacco di ricchezza. Perché non vende tutto e li dà ai poveri?”. Sembra una soluzione molto intelligente e anche molto evangelica, ma, se il Vaticano vendesse tutto quello che ha – compreso quello che in realtà non potrebbe vendere: tesori storici, opere d’arte…-  i poveri starebbero bene finché dura il ricavato della vendita, ma poi tutto tornerebbe come prima. Se invece questi beni vengono utilizzati in modo da produrre guadagni duratori nel tempo (esempio il turismo) per essere investiti per opere di misericordia, i poveri potrebbero avere un beneficio più duraturo.

La domanda è, caro Marco: “Ma questi beni vengono ricavati e utilizzati per il bene dei più bisognosi, cioè per celebrare Dio come si dovrebbe?”.  Probabilmente più di quanto si dice in giro. Il problema è che bisognerebbe che questo risultasse chiaro a tutti, e invece purtroppo sempre così non è. E allora, caro Marco, io e te, e chissà quanti altri, con un po’ pazienza ma con molta fiducia, dobbiamo aspettare la risposta che ci sta arrivando dall’alto, da molto in alto, da papa Francesco. Hai visto con quanta saggia fermezza sta lavorando? Il vestito senza addobbi settecenteschi, le scarpe più brutte delle mie e delle tue, la borsa da viaggio portata da solo, gli spostamenti in utilitaria, il cardinale mandato di notte ad aiutare i barboni, i bagni per i senzatetto vicino al colonnato… Non sono gesti sporadici di tipo propagandistico – il papa non ne ha bisogno: non deve fare la campagna elettorale – ma tappe sapienti verso un obiettivo chiarissimo: utilizzare le ricchezze materiali, che sono buone o cattive secondo l’uso che se ne fa, per celebrare Dio, aiutando nel modo più trasparente, intelligente, duraturo possibile chi ne ha veramente bisogno. Oh, Marco, intendiamoci, questo vale anche per me e per te!

Facebook è solo tempo perso?

telefoninoPost dopo post, le amicizie possono crescere, ma importante è non perdere la propria identità!

“Don Tonino, ho visto un tuo post su Facebook. Incuriosito per l’abbinamento testo-foto, ti ho chiesto l’amicizia, come faccio con tutti quelli che stuzzicano la mia curiosità. Grazie per avermela concessa senza sapere chi sono. Visitando, poi, la tua pagina mi sono ricordato di aver letto qualcosa di Continua a leggere “Facebook è solo tempo perso?”