L’educazione è frutto di esperienze educative

L’educazione viene da esperienze dirette. Tutto quello che viviamo in prima persona da bambini e in età adolescenziale aiuta a formare le nostre coscienze e il nostro carattere. Facendo questa osservazione come premessa è facile capire come le esperienze educative che riusciamo a far vivere ai nostri adolescenti, siano di estrema importanza: hanno la capacità di influenzare tutta la loro vita! Anzi, per essere ancora più incisivo, le esperienze che viviamo anche da adulti rieducano le nostre coscienze sempre e ci aprono a vivere orizzonti sempre nuovi.

Proprio per questo vanno curate nei minimi dettagli con attenzione alle particolari sensibilità di ogni ragazzo.

Una stessa esperienza può causare emozioni diverse, è bene per questo dare un valore previo all’esperienza che si vuole affrontare e dopo canalizzare le emozioni che i ragazzi esprimeranno.

È importante che le esperienze educative facciano sentire i ragazzi protagonisti e che abbiano una forte valenza simbolica.

Come costruire un itinerario educativo esperienziale? Ogni esperienza educativa dovrebbe essere composta da alcuni momenti[1].

È importante anzitutto individuare i bisogni concreti di carità dei ragazzi. Ognuno di noi ha diverse sensibilità ed è importante valorizzare le esigenze concrete dei ragazzi del gruppo, che siano capaci di suscitare stupore nel loro cuore. I ragazzi devono essere consapevoli che c’è bisogno di loro.

Nel vivere le esperienze educative dobbiamo far sì che nascano delle domande: come posso cambiare io questa realtà? Qual è l’aiuto concreto che posso dare in questa esigenza caritativa?

Papa Francesco ci parla spesso delle periferie esistenziali: penso che proprio queste periferie siano capaci di suscitare domande di senso nei ragazzi come anche nei più grandi sono capaci di suscitare sempre grandi interrogativi. È importante che ai ragazzi si mostrino, per quanto possibile, le radici delle realtà di necessità. Da dove viene il male, la povertà, il dolore?

Solo formando coscienze nel bene possiamo estirpare il male!

Il Vescovo Simone ci parla spesso dell’Amore: nell’affrontare queste esperienze educative è importante far venir fuori il cuore dei ragazzi e far comprendere loro che nel fare certi servizi è indispensabile donare tutto l’amore possibile: solo donando si riceve!

Le esperienze che si vorranno far vivere ai ragazzi, avendo forte valenza simbolica, dovranno aiutarli a saper rileggere la propria vita per aprirla al dono a Dio e ai fratelli [2].

L’itinerario educativo esperienziale dovrà sempre essere ritmato dalla liturgia, dalla catechesi e dalla carità[3]. Bisogna porre molta attenzione a vivere la carità senza Cristo: le nostre esperienze sono fondate su Gesù e sono vissute per scoprire il Suo volto nelle nostre coscienze. Proprio per questo è indispensabile vivere queste esperienze nella preghiera personale e comunitaria. Sono infatti indispensabili le scuole di Preghiera per gli adolescenti.

 

 

Don Vincenzo Cioppa

[1] Cfr. Sentieri di Pastorale Giovanile, Simone Giusti, 2016, Ed. Pharus, pag.174;

[2] Sentieri di Pastorale Giovanile, Simone Giusti, 2016, Ed. Pharus, pag.175;

[3] Ibid.;

Gli sconosciuti di Facebook

Su internet  è sempre una sorpresa  nel bene e nel male
Su internet
è sempre una sorpresa
nel bene e nel male

*don Mario Simula*
Non so chi siano. Che faccia abbiano. Come si vestano e cosa mangino a merenda.
I nomi poi! Ne ho catturato qualcuno per caso. Ma non so a chi di essi corrispondano.
Tutto è nato da un altro anonimo (o anonima?), che leggendo le mie paginette quotidiane sul sito si è chiesto: “Perché le devo tenere soltanto per me? Quasi quasi provo a “postarle”. Con tutti i rischi. Quando si posta puoi avere in risposta parole bellissime e parolacce ricercatissime. Tutto poteva capitare.

Primo miracolo: gli interlocutori, che poi ho capito essere ragazzi adolescenti, non solo non usano parole “fiorite”, ma si impegnano a non usarle per tutta la quaresima. Mai capitato nella loro vita, una volta compiuti gli otto anni.
Era l’inizio della quaresima. Se di quel tempo avevano dimenticato tutto, non era passata dalla loro memoria la voglia di impegnarsi in qualcosa: “Non useremo parolacce”.
Secondo miracolo: non hanno difficoltà ad avere come interfaccia un prete. Un segreto: Donnnnnnnnnnnnnnnnnnn! PREDICHEeeeeeeeeeeeeeeeeeee! NOoooooooooooooooo!.
Si può arrivare al cuore dei ragazzi anche di quelli lontani senza fare prediche. Raccontando, incoraggiando la vita ad essere vita, non cadendo sempre sulla buccia di banana della paura.
Terzo miracolo: “Stiamo imparando a conoscere il Vangelo e il nostro “amichissimo Gesù”.
Non sapevamo che esistessero certe pagine del Vangelo, alcuni racconti. Nessuno ce ne aveva parlato. E poi, quando ce ne parlava la suora al catechismo: che “palle”.
Stiamo capendo che Dio è nostro amico, ci vuole bene e non è sempre pronto a spingerci nell’inferno.
Quarto miracolo: caro donnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnn, la sai una cosa. Da quando i nostri genitori ci hanno visto con le cuffie alle orecchie anche di notte, si sono incuriositi. Carla ha visto che la mamma, di nascosto “ficchettava” tre le cose della figlia. Stava anche lei ascoltando le storie, il Vangelo.
Qualche giorno fa è avvenuto l’impensabile. Ci siamo trovati io papà e mamma, seduti sullo stesso divano, mentre ascoltavamo insieme quella storia che il papà aveva raccontato al figlio. Mio padre è rimasto meravigliato: “Scusami se io non l’ho mai fatto con te”. Io ho visto una lacrima scendergli lungo il viso”. Ehi! Don, sei “togo”.
Quinto miracolo: i genitori sono felici che qualcuno parli ai loro figli e li aiuti a crescere. Intanto dal padre e dalla madre non accettano nulla.
Spigolature varie
Si parla di un fatto increscioso avvenuto in classe. Tutti hanno visto il maltrattamento riservato ad una ragazza con difficoltà, ma nessuno è intervenuto.
Ecco l’intervento alla lettera da parte di un ragazzo: “Allora nessuno dice avete paura????? Anche io sono stato di quelli che ho detto non ho visto e non ho sentito ma don amico che posti parlo con voi visto che i miei amici se la stanno facendo sotto perché leggono anche i nostri genitori. Le cose sono tutte vere, hanno abbassato i pantaloni tutti abbiamo visto chi ha deriso, approfitta solo perché è ritardata perché è malata perché non si sa difendere tutti abbiamo riso e la prof se l’ha presa con lei che doveva andare a dirlo alla prof. Stronza se avesse capito ciò che

FACEBOOK NON È IL DIAVOLO I social network possono diventare uno strumento per comunicare, ma vanno usati con saggezza. A volte possono essere un valido alleato per arrivare a chi è più “lontano”, altre per far sentire la propria voce a chi è solo o disorientato e invece ha bisogno di una guida
FACEBOOK NON È IL DIAVOLO
I social network possono diventare uno strumento per comunicare, ma vanno usati con saggezza. A volte possono essere un valido alleato per arrivare a chi è più “lontano”, altre per far sentire la propria voce a chi è solo o disorientato e invece ha bisogno di una guida

succedeva si sarebbe difesa. Invece la prof di sostegno a fare salotto. Facciamo schifo. Sara ha pianto anche se malata si è sentita umiliata e noi qui a leggere. Don siamo, io compreso, tutti codardi. Semplice scrivere don è vero hai ragione e poi … adulti neanche voi intervenite vero??? Anche voi sapete ma meglio tenere bocca chiusa. Don bravo complimenti per chi non capisce, hai messo anche le emoctions”.
Potrei dire infinite altre esperienze emerse. Mi riservo di farlo con cura.

Di una cosa mi sono convinto.
• Facebook non è il diavolo
• Deve essere proibito a chi lo trasforma in tempo da perdere a vuoto
• Deve essere proibito ai preti attaccabrighe e ficcanaso, e a quelli che lo utilizzano anche nei tempi morti delle concelebrazioni quando si distribuisce la comunione
• Deve essere interdetto a chi lavora in ufficio e dimentica di sbrigare le pratiche facendo aspettare la gente
• Deve essere assolutamente vietato a chi soffre di allergia congenita alla comunicazione diretta per paura di vedere l’espressione del viso di chi gli sta di fronte, di sentire il tono della sua voce e il significato dei silenzi, pieni di gesti.

Qualche volta può diventare un alleato imprevisto attraverso il quale molti XXXXXX diventano AMICI senza avergli chiesto l’amicizia.

La frase: “dipende dall’uso che se ne fa”
La frase: “dipende dall’uso che se ne fa”

L’ALTRA FACCIA DI FACEBOOK
di Maria-Chiara Michelini
Finalmente si entra nel gotha dei social, nel cuore delle relazioni della rete, nella bolla comunicativa del tempo presente, nel mito dell’apparire che coincide perfettamente con l’esserci: Facebook. E finalmente, qualcuno di parte ecclesiale, si prova a dire: facebook non è il diavolo, con facebook si possono fare miracoli, ci sono limiti che possono essere superati per l’annuncio della buona Novella.
Chiarirò immediatamente, a scanso di equivoci, che sono tra quelli che condividono le convinzioni con cui si chiude il contributo di Don Mario Simula. Ma sono anche persuasa che attualmente il social si presti troppo e venga ancora prevalentemente utilizzato da chi lo trasforma in tempo da perdere a vuoto, dai preti attaccabrighe e ficcanaso, e da quelli che lo utilizzano anche nei tempi morti delle concelebrazioni quando si distribuisce la comunione, da chi lavora in ufficio e dimentica di sbrigare le pratiche facendo aspettare la gente, da chi soffre di allergia congenita alla comunicazione diretta per paura di vedere l’espressione del viso di chi gli sta di fronte, di sentire il tono della sua voce e il significato dei silenzi, pieni di gesti. Conseguentemente ho ancora l’atteggiamento di chi vede una montagna di spazzatura da smuovere per rintracciare, sotto “la perla” nascosta. L’impresa mi appare davvero titanica e chi lodevolmente si avventura in essa, sostenuto dalla convinzione del tanto potenziale insito, dovrebbe avere questa chiarezza, evitando ingenuità e scivoloni.
Fatta questa precisazione che ritengo doverosa, vediamo perché credo che “finalmente” parliamo di facebook.
Finalmente parliamo in chiave attuale del rapporto mezzi/fini e della loro separazione/unione. Nel linguaggio comune questo tema è sintetizzato dall’espressione “dipende dall’uso che se ne fa”. Vero. Fino a un certo punto. Ma andiamo per gradi.

social, che fare?
social, che fare?

La separazione dei fini dai mezzi (e viceversa) è un problema serio e il nostro tempo dovrà fare i conti con questa scelta che ha fatto storicamente. Come si può pensare, ad esempio, di perseguire la pace, investendo risorse, energie, ricchezze dei popoli su mezzi bellicosi? La separazione, in questo caso, è riferibile alla distanza ontologica ineliminabile tra i mezzi (nocivi, letali, aggressivi) e il fine (pace, armonia, benessere, condivisione…). Questa separazione, viceversa, comporta un disallineamento degli uni rispetto agli altri e, soprattutto, un processo di vorace fagogitazione degli uni (i mezzi) sugli altri (i fini). I mezzi, con la loro rassicurante concretezza, tendono a catalizzare ogni energia, mentre i fini, con la loro spiritualità, tendono alla trasparenza e alla volatilità. Tanto da diventare essi stessi padroni del loro destino, fissando e determinando i fini stessi. Così se il focus diventa il possesso del telefonino di ultima generazione, esso da mezzo diventa scopo del mio agire (per il possesso, per la sua conoscenza, per l’utilizzo), ma, ancor di più esso stabilirà gli scopi dell’uso: funzioni, tempi, modalità….Così, attraverso il mezzo, abbiamo stabilito fini comunicativi, ad esempio, che non avremmo immaginato (ad esempio: contatto in tempo reale con una chat su wa con persone mai viste e conosciute, ma accomunate da un interesse comune (uno sport, un cibo, un evento…).
Facebook, in questo senso, rappresenta un iperbolico esempio: la potenza del mezzo veicola fini (a volte aberranti, come il maltrattamento della ragazza con difficoltà), li rende possibili e per ciò stesso, attribuisce loro un potere di esistere che schiaccia e ammutolisce.
E arriviamo, finalmente, al tentativo di cui si parla ne Gli sconosciuti di facebook. Si tratta di un’esperienza che cerca proprio di valorizzare il potenziale del mezzo, coniugandolo con i fini dell’annuncio evangelico e dei valori intrinseci. Ci si stupisce addirittura che funzioni (l’elenco dei miracoli è indicativo, in tal senso) e che crei alleati. I grandi educatori del ‘900, compresi quelli del mondo cattolico, sono stati spesso intelligenti interpreti del potenziale dei mezzi nuovi del loro tempo (un esempio per tutti: l’uso didattico del giornale nella scuola di Barbiana di don Milani). È bene condurre esperienze di questo genere che cerchino di riconciliare la potenza di facebook, con i fini dell’evangelizzazione. Si tratta di un mezzo, potente, pervasivo, che può funzionare.
Certo occorre sapienza. Che non è il sapere dell’uso di facebook, il suo tecnicismo, pur inevitabilmente necessario. Occorre la saggezza del sapere critico, della vigilanza costante sui continui rischio di scivolamenti, di subordinazioni culturali, delle fascinazioni ingannevole dell’apparire. Davide, contro (o con) il gigante Golia. Chi pensasse ancora di “farsi grande” perché capace di stare su facebook e di avere molti “mi piace”, non farebbe che alimentare la voracità del mezzo senza aggiungere nulla alla storia della salvezza. Ma Davide può vincere.

TAU: quando la musica è strada di fede

tau_fmt*di Giulia Sarti* Bastano tre lettere per darsi uno stile di vita. Nella diocesi di Livorno la T, la A e la U, sono quelle scelte da ventisei ragazzi tra i 20 e i 30 anni di diverse parrocchie che attraverso la musica provano a raggiungere anche quei giovani più lontani dalla realtà ecclesiale.
Nato col nome “Rockettari di Cristo” nel 2011, oggi il gruppo dei TAU è conosciuto un po’ da tutti in diocesi. Era stata la GMG di Madrid a metterli insieme, spontaneamente senza decisioni a tavolino. Quel nome li ha accompagnati fino al 2014, anni durante i quali hanno animato diverse celebrazioni e feste diocesane.
Poi l’entusiasmo di papa Francesco, il suo amore verso i giovani, ha coinvolto anche loro tanto da portarli a un rinnovamento personale e come gruppo, un cambiamento di consapevolezza e priorità, raccontano. E, come scrivono sulla loro pagina Facebook, per rendere ancora più marcata l’adesione al Vangelo, hanno deciso di affidarsi a un simbolo tanto caro al Santo a cui anche il Papa si era voluto ispirare, che ricordasse l’impegno di vita nella sequela di Cristo.

un simbolo, un'idea
un simbolo, un’idea
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Concerti e spettacoli per cercare Dio e raccontarlo agli altri

Il TAU dicono, era anche stato il simbolo che il Vescovo della diocesi livornese, Simone Giusti, aveva regalato loro a uno dei primi concerti. Da lui e da alcuni diaconi e sacerdoti il gruppo in questi anni si è sempre sentito sostenuto e incoraggiato.
Coro a quattro voci, tastiera, chitarra elettrica e acustica, batteria e percussioni hanno dato vita al loro spettacolo d’esordio, “Dottore che sintomi ha la felicità”, scritto dopo uno scambio di testimonianze tra i membri del gruppo che avevano vissuto esperienze di diverso tipo, chi con il volontariato in Africa, chi con l’estate insieme a Libera, chi con momenti forti vissuti in ambienti di varia spiritualità.
Due le canzoni scritte e musicate al termine di questo percorso, tante le letture scelte che aiutassero il pubblico a una personale riflessione sulle Beatitudini e la propria ricerca della felicità. Un genere particolare di serata, un concerto-spettacolo in preghiera. Un mix di musica, canto, ballo e recitazione, nel quale ogni membro trovasse il suo spazio, impegnato in quello che sa fare meglio.
Un modo “giovane” per cercare di trasmettere un messaggio che accomuna tutti i ragazzi della loro età, spiegano.

TROVIAMO LA NOSTRA CHIAVE Coro a quattro voci, tastiera, chitarra elettrica e acustica, batteria e percussioni: mix di musica, canto, ballo e recitazione, nel quale ogni membro trova il suo spazio. I Tau diventano testimoni del Vangelo con la musica, i loro spettacoli si fanno coinvolgenti, raggiungono il cuore dei coetanei e dei più adulti e, con il loro linguaggio, arrivano anche i più lontani.
TROVIAMO LA NOSTRA CHIAVE
Coro a quattro voci, tastiera, chitarra elettrica e acustica, batteria e percussioni: mix di musica, canto, ballo e recitazione, nel quale ogni membro trova il suo spazio.
I Tau diventano testimoni del Vangelo con la musica, i loro spettacoli si fanno coinvolgenti, raggiungono il cuore dei coetanei e dei più adulti e, con il loro linguaggio, arrivano anche i più lontani.

A distanza di poco più di un anno per loro è poi arrivato il momento di un nuovo spettacolo, replicato in questi mesi in diverse parrocchie cittadine. “Trova la tua chiave” è pensato per riflettere sulla ricerca di Dio nella propria vita, attraverso quattro tappe a simboleggiare il cammino che ogni cristiano compie nel suo rapporto con Dio. “Ama e dillo con la vita”, un nuovo inedito in questo secondo lavoro interamente pensato e prodotto dal gruppo, con canti e letture scritte sulla base di testi biblici ed omelie di Papi accompagnate da brani del Vangelo, il tutto legato insieme da alcuni momenti di recitazione per “leggere” in modo diverso il disegno di Dio su ciascuno.

Ma i TAU non sono solo testimoni del Vangelo con la musica, le offerte raccolte durante tanti dei loro spettacoli sono servite per contribuire a diverse opere di solidarietà, oltre che per il proprio autofinanziamento.
Passo dopo passo il gruppo dei TAU cerca di farsi strada tra i giovani soprattutto i più lontani…che possa un giorno incidere un CD inedito come ha suggerito il loro Vescovo?

 

 

LEZIONI DI BEL CANTO
di Maria-Chiara Michelini

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La musica da sempre è un linguaggio di grande potenza

Leggendo l’esperienza dei TAU e guardando le loro foto, coloratissime e festose si pensa istintivamente: “Bello!”.

Bello il senso di quest’esperienza, bello l’impatto visivo, bella la storia, bello il percorso riflessivo, bello il messaggio, gli obiettivi e le modalità, belli i temi e le circolarità virtuose create attorno al nucleo centrale della proposta, bella la contaminazione di linguaggi. Bello.

Davanti alla bellezza di una proposta si genera un senso di grata evidenza e la liberatoria sensazione che, di una cosa del genere, ce ne fosse bisogno. La musica da sempre è un linguaggio di grande potenza e fascino. Per i giovani si aggiunge una cifra generazionale positiva, con valenza identitaria, carica di significati. L’idea di valorizzare questo canale privilegiato dalle giovani generazioni per esprimere e comunicare con loro i valori del vangelo, è sicuramente un’idea vincente. Riemerge, insomma, il tema delle forme del dialogo con i giovani, soprattutto quelli più lontani dalla realtà ecclesiale. Le forme rappresentano, certamente un primo passo nella direzione della comprensione, intesa come farsi prossimo, andando verso le esigenze e i linguaggi delle persone che conosciamo poco. Come abbiamo già avuto modo di dire per altre esperienze, questo primo passo non è però sufficiente. Neppure per spiegare il “successo” dei TAU. Non si tratta solo di confezionare un bel prodotto, appetibile e piacevole per raggiungere e coinvolgere i giovani “lontani”. Credo che i TAU lo abbiano capito e che, in ogni caso, siano impegnati in questa direzione.

A Torino una performance musicale di successo
Esprimersi, emozionarsi, contare: nuove forme di evangelizzazione

Torino_opt*di don Domenico Cravero*
Il fatto
La commissione-giovani di un’unità pastorale di una grande città alla periferia di Torino prende atto del distacco dei giovani dalla chiesa e decide di rilanciare la pastorale giovanile. Vuole fare qualcosa per interessare e convocare giovani e adolescenti. Pensa e un evento cittadino. Gradualmente si orienta a una performance musicale. Dopo una prima sperimentazione in oratorio e un percorso formativo di un anno di un gruppo di giovani e di adulti, la performance (“una discoteca comunicativa”) debutta in città, in un ampio padiglione riservato alle manifestazioni musicali.Un successo: aderiscono più di 600 giovani, la notte del 3 giugno 2016. Domandiamoci: come mai questa risposta così massiccia a una iniziativa della PG?
Il progetto e la realizzazione
La nuova cultura della comunicazione e l’espandersi straordinario del web sono il fatto caratteristico dell’epoca attuale. Questa nuova condizione esige non solo un aggiornamento e un riassetto superficiale delle metodologie ma un cambiamento di priorità e di paradigma nell’animazione giovanile. I percorsi educativi rivolti agli adolescenti devono raccogliere la sfida delle nuove possibilità di mobilitazione. I mondi virtuali non sono necessariamente alternativi alle performance reali, possono invece entrare in una sinergia virtuosa. L’intervento educativo deve ripartire da dove più è difficile: i ragazzi che “non vengono”, quelli che non pongono esplicite domande educative. Le comunità parrocchiali possono così compiere scelte missionarie e darsi nuovi strumenti di comunicazione “in Torino_Piazza_San_Carl_optuscita”. Andare là dove stanno i giovani ed essere portatori di speranza, calarsi nel loro vuoto di senso per individuare e stimolare, poi, le loro risorse e creatività. L’impegno richiesto dall’aggiornamento dei linguaggi e degli strumenti metodologici è sicuramente faticoso ma è ripagato dalla possibilità di entrare in relazione con masse di adolescenti e giovani secondo linguaggi di sicuro effetto.
La sfida è stata raccolta più dall’industria del divertimento che dalle agenzie educative.
La”festa di massa”, soprattutto nei grandi eventi del divertimento notturno, è stata organizzata secondo precisi copioni che comprendono almeno quattro fasi che si susseguono e s’intrecciano: l’identificazione, l’eccitazione, la catarsi e la risoluzione. Ognuno dei quattro tempi è vissuto secondo le caratteristiche specifiche di ogni locale e di ogni serata, e sono resi possibili dall’uso imponente delle tecnologie, architettoniche ed elettroniche, senza dimenticare l’apporto di professionalità del tutto nuove.
L’identificazione è particolarmente curata in senso selettivo (le regole del locale, la selezione all’ingresso) e mediatico (l’uso e l’abuso dell’effettistica elettronica).
L’eccitazione definisce lo stile con cui la massa di festa raggiunge l’unisono, fino alla fusione. La mente ne è travolta in un’euforia che il gergo chiama “sballo”. L’intensa esperienza emotiva trova il suo culmine nel punto della notte che il dj ha scelto come meta del lungo ed estenuante viaggio: la catarsi e la risoluzione, l’eccitazione emozionale che raggiunge il suo apice e si risolve poi nel rilassamento della passione indotto mediaticamente.
L’effetto performativo del viaggio della discoteca è affidato alla trama di un’epopea, raccontata e mimata da d.j. e vocalist, composta secondo i criteri del linguaggio virtuale. Essa allude a gesta e imprese dove l’eccitazione è condotta verso un’esperienza sempre più intensa che non è eccessivo chiamare di tipo simul-orgiastico, visti i continui riferimenti sessuali nel linguaggio del d.j. e nella scenografia (cubiste, proiezioni, immagini).

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L’idea: ricreare una discoteca per rilanciare la pastorale giovanile

La pastorale giovanile
Oggi non ci sono più riti d’iniziazione ma solo più eventi commerciali.
La festa dell’adolescenza, la celebrazione dell’ingresso nella vita adulta, possono diventare nuovi spazi educativi, ambiti dove sperimentare scoperte audaci, costruire ideali nuovi, maturare scelte coraggiose, per rispondere in modi autentici alle domande più profonde. Il debutto sociale degli adolescenti è un evento da programmare e da preparare con cura. Costituisce un’occasione concreta con cui gli adulti (genitori, insegnanti, educatori) danno un contributo e rendono una testimonianza per la realizzazione di una società più capace di credere e investire sul suo futuro. La performance della discoteca può essere organizzata in termini diversi e anche opposti e diventare un evento aggregativo, comunicativo e artistico in grado di fungere come rito di iniziazione. L’identificazione può essere resa aperta e non selettiva, centrata sullo stile dell’accoglienza e della comunicazione e il divertimento essere inteso in senso attivo e partecipativo. La massa di festa può rendere i giovani protagonisti nella creazione di un tempo di loisir vissuto anche come occasione in cui si valorizzare una pluralità di talenti. L’epopea, soprattutto, può consistere nel racconto simbolico della vita reale (il “dramma” sociale sopra accennato) attraverso i linguaggi artistici. L’intensa partecipazione emozionale della catarsi può essere mediata e sorretta dal ruolo attivo dell’animazione e della libera espressione di sé. Il popolo della notte può essere trasformato in una “massa di festa”, unita e identificata non nella simulazione di un’epopea astratta e virtuale, non nel racconto di un’impresa mitica ed eroica che dj e vocalist costruiscono artificialmente, quasi come surrogato di un bisogno di trascendenza consumistica. Si può invece creare un evento collettivo di grande portata, in un laboratorio del racconto di sé, delle paure e delle conquiste, delle contraddizioni e dei sogni, come denuncia e dissenso ma anche immaginazione e speranza. Le performance estetiche, i loro linguaggi e la loro musica possono diventare un laboratorio in cui gli adolescenti si raccontano, parlano delle paure e delle conquiste, delle contraddizioni e dei sogni, denunciano, esprimono dissenso e consenso e possono farlo di fronte agli adulti.

L'idea parte da un gruppo promotore composto di giovani animatori, rappresentanti degli adolescenti e dei giovani; si propongono dei laboratori di formazione sui linguaggi performativi; si discute la forma estetica da dare all'evento (Pratica educativa? Azione sociale? Forma di evangelizzazione?). Si decide poi un soggetto, una storia da presentare e attorno ad esso lavorano le equipe dei dj, dei vocalist e dell'animazione. Ci sarà  dunque un programma di animazione con la scelta di tecnologie ed effetti. Gli adulti saranno chiamati a garantire la gestione della sicurezza ed il recupero delle risorse economiche, ma il resto lo fanno i giovani.
L’idea parte da un gruppo promotore composto di giovani animatori, rappresentanti degli adolescenti e dei giovani; si propongono dei laboratori di formazione sui linguaggi performativi; si discute la forma estetica da dare all’evento (Pratica educativa? Azione sociale? Forma di evangelizzazione?). Si decide poi un soggetto, una storia da presentare e attorno ad esso lavorano le equipe dei dj, dei vocalist e dell’animazione. Ci sarà  dunque un programma di animazione con la scelta di tecnologie ed effetti. Gli adulti saranno chiamati a garantire la gestione della sicurezza ed il recupero delle risorse economiche, ma il resto lo fanno i giovani.

Il percorso per una “discoteca performativa”
Per realizzare un evento aggregativo non sono necessari adulti competenti nelle performance giovanili. Basta l’estro giovanile e l’inesauribile ventaglio di soluzioni originali che prontamente individuano (sacerdoti, suore, genitori sono importanti nel loro ruolo proprio). È utile invece di individuare una metodologia d’intervento e una strategia operativa efficace. Indico sinteticamente i passi compiuti nell’evento sopra indicato.
Si è costituito innanzitutto un gruppo promotore composto di giovani animatori, rappresentanti degli adolescenti e dei giovani dei diversi oratori dell’unità pastorale, di educatori adulti e di rappresentanti dei genitori. Sono stati poi proposti dei laboratori di formazione sui linguaggi performativi. Si è successivamente discussa la “forma estetica” da dare all’evento (pratica educativa? azione sociale? forma di evangelizzazione?). Si è deciso di raccontare un “dramma”: l’attesa di futuro dei giovani di oggi, usando la metafora del viaggio travagliato degli immigrati che salvandosi dalla sciagura approdano sulle nostre coste. Attorno a questo soggetto artistico hanno lavorato le equipe dei dj, dei vocalist e dell’animazione. Si è così costruito il programma musicale e il “piano animazione”, con la scelta oculata delle tecnologie comunicative e dell’effettistica. Gli adulti sono stati coinvolti soprattutto per garantire il consenso delle comunità, la gestione della sicurezza e il reperimento delle risorse economiche

 

La discoteca comunicativa:  coraggio, innovazione, partecipazione. Altro che sballo!
*di Maria Chiara Michelini*

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Siamo di fronte ad un’esperienza certamente coraggiosa

L’esperienza raccontata da Domenico Cravero propone profili innovativi per la pastorale giovanile ed esige, necessariamente, un approccio critico-problematico ai temi e alle soluzioni proposte. Questa è la prima chiave di lettura di interesse pedagogico: affrontare questioni complesse come quelle del distacco dei giovani dalla Chiesa, richiede di abbandonare certezze consolidate, in favore del dubbio, dell’interrogarsi pensoso e critico su cause e soluzioni. Non perché una “formula” ha funzionato in passato, ciò significa necessariamente che funzioni oggi, tentare una nuova strada, interrogandosi appassionatamente su una questione, animati dalle migliori intenzioni, non ci mette al riparo di rischi, né esclude la possibilità di errore.
Siamo di fronte ad un’esperienza certamente coraggiosa, credo, consapevolmente coraggiosa, per il tema affrontato, per la strada intrapresa, per la quota di innovazione e pericolosità insita in essa. “Andare là dove stanno i giovani”, “calarsi nel loro vuoto di senso” interpretare grandi eventi del divertimento notturno, parlando di eccitazione e catarsi, sono scelte difficili, discutibili, nel senso che vanno discusse per essere pensate e realizzate, come un’impresa pericolosa e ignota. Credo che questa sia la prima ragione del successo dell’iniziativa: le persone percepiscono, ben al di là delle formule, chi va loro incontro, con atteggiamento positivo e non giudicante, con coraggio, alla ricerca di un dialogo fatto di parole diverse da quelle a cui si è abituati normalmente.
C’è poi, indubbiamente, il tema del linguaggio delle nuove generazioni che questa iniziativa decide di apprendere e parlare: inventarsi una discoteca performativa, tra apprendistato da dj e vocalist, attraverso laboratori di formazione sui linguaggi performativi da parte del gruppo promotore, è scelta impegnativa e decisamente innovativa. Ciclicamente la questione del linguaggio riemerge in ambito pastorale non sempre riuscendo a sciogliere un possibile equivoco di fondo: apprendere i nuovi linguaggi è senz’altro necessario per comunicare con gli uomini del nostro tempo, ma non è sufficiente e, in ogni caso, non coincide con l’inseguimento delle mode e delle nuove tendenze.

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Compito della Chiesa è raggiungere l’uomo, dovunque esso si trovi oggi

Periodicamente ci si illude che basti un po’ più di computer, di face-book, di musica metal, per risolvere il problema della pastorale per le nuove generazioni. Certo che i nuovi linguaggi vanno appresi e parlati, per interagire con i giovani, ma se essi rovesciano il rapporto fine/mezzi, se essi non vengono interpretati in maniera creativa e critica, diventano solo parvenza di modernità. Inseguire il nuovo è impresa titanica e inutile, nel senso che non è possibile stare al passo con le trasformazioni della nostra epoca e, soprattutto, anche se ciò fosse possibile, non è il compito della chiesa e non basta a rendere comprensibile la buona novella alle giovani generazioni. L’uso dei linguaggi di nuova generazione è un aspetto, importante ma non esaustivo, della interpretazione dell’identità e della missione della chiesa oggi. Compito della Chiesa è raggiungere l’uomo, dovunque esso si trovi oggi, per camminare con lui alla scoperta dei segni della presenza positiva e salvifica di Dio, dentro le stanze, gli abissi, i linguaggi e le contraddizioni del suo vivere. Questo dialogo ha bisogno di un vocabolario comune, che include quello della quotidianità, da interpretare in maniera creativa, innovativa ed efficace e che, anzitutto, dice ai giovani: siamo qui con voi e siamo disponibili a camminare con voi nella ricerca di senso di ciascuna vita; siamo dentro la vostra ricerca, parliamo la vostra lingua, per capire le vostre paure e i vostri sogni e, forse, siamo in grado di dire alcune parole nuove, per voi comprensibili, per interpretarli e per crescere.
Mi sembra che sia da intendere in questo senso l’anno dedicato dal gruppo promotore di questa esperienza (giovani animatori dei diversi oratori, educatori adulti e rappresentanti dei genitori) alla preparazione dell’evento che ha richiesto formazione specifica, progettualità, scelte di ogni tipo, oltre che gestione della sicurezza, reperimento risorse economiche, coinvolgimento delle comunità per garantire il consenso.

stock-photo-san-franci_optQuest’ultimo elemento, dal punto di vista pedagogico, mi sembra il più interessante e quello oggi più a rischio rispetto alle derive autoreferenziali di tante iniziative ecclesiali: le scelte pastorali, soprattutto quelle più coraggiose e innovative, non possono che nutrirsi di partecipazione. Il soggetto dell’azione è la comunità, non la mente o il gruppo carismatico che pure hanno il merito dell’intuizione, dell’impulso, della visione profetica. Mi pare che nel caso di Torino l’attenzione a questo aspetto rappresenti la cifra stilistica essenziale, che si snoda attorno ai molti interrogativi (che fare per i giovani che si distaccano dalla chiesa? Che c’entra la Chiesa con lo sballo notturno? Quali strumenti di comunicazione usare? Quali nuove priorità pastorali? Quale forma estetica? Come affrontare i problemi connessi con un evento? Eccetera). Si tratta della cifra stilistica che fa la comunità, realtà che troppo frequentemente diamo per scontata nella Chiesa e che, invece, va pensata, costruita, interpretata, resa carne attraverso la partecipazione attiva di tutti. In questo senso, credo, la discoteca comunicativa di Torino è stata qualcosa di più di una performance, qualcosa di molto più vicino all’esperienza comunitaria, a partire dall’interno (il gruppo promotore) fino a giungere ai destinatari della “missione”, passando attraverso i portatori di interessi (i genitori) e i mandanti (le comunità ecclesiali, appunto), mai considerati come semplici spettatori di un evento.
In ciò, credo, stia il “successo”, oltre i pur significativi numeri della partecipazione e la novità del sentiero tracciato. Che merita, certo, di essere consolidato, sostenuto, esteso.

CORAGGIO E INNOVAZIONE
Le scelte pastorali, soprattutto quelle più coraggiose e innovative, non possono che nutrirsi di partecipazione. Il soggetto dell’azione è la comunità, non la mente o il gruppo carismatico che pure hanno il merito dell’intuizione, dell’impulso, della visione profetica. L’esperienza di Torino è significativa proprio per questo: ha coinvolto
non solo i giovani, ma un gruppo più ampio di persone che si sono poste degli interrogativi, che si sono formate e hanno costruito insieme. Quella di Torino è stata molto più che una performance.

Il cammino delle 10 parole

L’esperienza dei frati francescani di Fossabanda a Pisa
L’esperienza dei frati francescani di Fossabanda a Pisa

*di Elisabetta Tomasi*

Cosa può convincere centinaia di persone a riunirsi, regolarmente ogni settimana, per 14 mesi, tolta una breve pausa estiva? E aggiungere ogni mese un sabato dedicato a incontri dal nome quasi incomprensibile come “scrutatio”, o dal nome un po’ triste di “ritiro”, per concludere nell’agosto del secondo anno con una intera settimana dedicata al “ritirone”?

Sembra impossibile, ma ciò che coinvolge così tante persone è qualcosa di semplice ed essenziale: le 10 parole che Dio ha inciso sulla pietra, più note forse come 10 comandamenti.

image2In questo tempo di individualismo e di autosufficienza, di relativismo e di insofferenza verso ogni limitazione della libertà, molte persone si ritrovano per mettersi in ascolto delle “Parole” di Dio, per scoprire il significato profondo di un messaggio che da senso alla vita, che la libera dai falsi idoli, che la riempie con  parole di verità, di libertà e di amore.

Proprio questo è forse il successo di questa originale formula di catechesi: aiutare le persone a leggere i comandamenti come messaggi di realizzazione di sé alla luce del progetto di Dio, prima che come regole da osservare.

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In ascolto delle parole di Dio per scoprire il senso della vita

Gli incontri sono veramente, in senso letterale, “ascolto”. Il catechista parla, medita e commenta il singolo comandamento, conduce la riflessione senza dibattito, senza domande, senza discussioni. Queste sono lasciate alla condivisione che avviene durante i ritiri, due nel corso dell’anno, e nel “ritirone” finale. La catechesi trascorre veloce, il primo quarto d’ora è dedicato a riprendere il filo dell’incontro precedente, poi ci si addentra tra episodi evangelici, riflessioni teologiche, aneddoti personali e riferimenti alle discipline che aiutano a guardare dentro di sé in profondità, per mettere a confronto la Parola dell’ annuncio divino con la vita di ogni giorno. Molto si basa sulla capacità del catechista di adottare una esposizione vivace e di mantenere l’attenzione, ma le esperienze fatte finora sono positive. I partecipanti ricordano con un sorriso alcune sottolineature umoristiche, o l’esegesi di brani biblici noti ma su cui non si è mai riflettuto abbastanza.

Per ogni comandamento è previsto un momento di approfondimento particolare. La scrutatio è una forma di “lectio divina” a cui segue una breve condivisione. Il ritiro è tenuto nell’arco di mezza giornata. Il “ritirone” finale, di solito a fine agosto in un luogo balneare, è una intensa esperienza di vita comunitaria, ritmata dalle meditazioni, dalla riflessione personale, da momenti liberi.

Per diversi anni i frati francescani di Santa Croce in Fossabanda a Pisa hanno visto passare nel tendone allestito in giardino circa duecento persone per ogni edizione. E da qualche anno si è aggiunta una versione per i giovani, significativamente tenuta in un’aula universitaria. Il percorso è lo stesso delle catechesi per gli adulti, solo le esperienze di vita sono attualizzate per gli ascoltatori giovani.

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http://fratipisa.blogspot.it/2016/09/10-comandamenti-giovani.html

Le 10 parole sono un modello di catechesi ideato nel 1993 da un sacerdote romano, don Fabio Rosini, responsabile per l’ ufficio vocazioni del vicariato di Roma e rivolte inizialmente ai giovani. Sono attualmente diffuse in tutta Italia, in ben 60 diocesi, e annualmente gli animatori si coordinano per mantenere uno stesso stile di presentazione. Sono pensate come un ciclo di catechesi da seguire per una sola volta. Da qualche tempo viene offerta una prosecuzione delle catechesi con il nome di “Cammino delle sei giare”, allusione alle giare del miracolo di Cana.

In una intervista così descrive don Fabio la sua esperienza: “I Dieci Comandamenti durano un anno e attraverso di essi si contribuisce alla maturazione delle persone. Il successo dei Dieci Comandamenti è dovuto anche all’assenza di altri punti di riferimento. Non a caso i sacerdoti che li fanno hanno buoni esiti.”

Sono parole che molti possono sottoscrivere.

RIPARTIRE DALLE BASI
Ben 60 diocesi hanno adottato il cammino delle 10 parole e tutte con ottimi risultati, questo è indicativo di quanto giovani e adulti abbiano bisogno di ripartire proprio dalle basi, dalle Scritture per vivere l’esperienza di Cristo. Le catechesi sono pensate come un ciclo, durano un anno e contribuiscono alla maturazione delle persone. Gli animatori si coordinano continuamente per mantenere uno stesso stile di presentazione.

 

Man holding a compass in his hand
Trovare la rotta giusta non è sempre facile

UNA BUSSOLA PER IL CAMMINO

di Maria-Chiara Michelini

In questi giorni nella mia piccolissima parrocchia stiamo vivendo l’esperienza della mancanza della chiesa, intesa come edificio, in seguito al terremoto che ha colpito il centro Italia. Siamo abbastanza lontani dall’epicentro per non avere subito conseguenze drammatiche, ma sufficientemente vicini per il verificarsi di danni seri, solo ad alcuni edifici, quelli più storici ed esposti, come le chiese, appunto. Ci si ritrova smarriti, perché privati all’improvviso di qualcosa che si è sempre dato per scontato, a volte con una buona dose di sufficienza e stanchezza. Ci si ritrova, così, ad accorgersi che quell’edificio così familiare da risultare noioso e superato, aveva un’acustica che restituiva come gradevole il canto normale del popolo riunito, aveva dimensioni assolutamente adeguate al paese in cui sorge, la luce calda della festa, colori che aiutavano a riconciliarsi con i propri vissuti interiori.

Mi si perdoni la nota forse troppo autobiografica, ma mi sembra che una delle chiavi interpretative della bontà del Cammino delle 10 parole di cui ci parla Elisabetta Tomasi consista proprio nel fare centro su qualcosa che tendiamo a dare per scontato, in questo caso i dieci comandamenti, i quali rappresentano in qualche misura l’a,b,c della nostra cultura catechistica. Imparati a memoria da tutti i bambini fino a qualche generazione fa, sono presenti alla memoria di noi adulti con lo stesso sapore delle filastrocche dell’infanzia, dei proverbi, delle poesie recitate ancor prima di imparare a leggere e scrivere.

Il tempo e la polvere sono scesi sui 10 comandamenti, ne abbiamo data per scontata la conoscenza, la comprensione, l’attribuzione di valore; abbiamo concentrato l’attenzione su altri aspetti di fede, più evoluti... ma l’analfabetismo catechistico  di nuova generazione ha sentito questa assenza, per questo abbiamo sperimentato il desiderio di “ridire” di nuovo queste parole e partendo da esse riproporre il senso profondo della fede cristiana.
Il tempo e la polvere sono scesi sui 10 comandamenti, ne abbiamo data per scontata la conoscenza, la comprensione, l’attribuzione di valore; abbiamo concentrato l’attenzione su altri aspetti di fede, più evoluti… ma l’analfabetismo catechistico
di nuova generazione ha sentito questa assenza, per questo abbiamo sperimentato il desiderio di “ridire” di nuovo queste parole e partendo da esse riproporre il senso profondo della fede cristiana.

Le 10 parole sono state, legittimamente, considerate per lungo tempo segno dell’Antico, che doveva essere reinterpretato positivamente alla luce del Nuovo, perfezionato dalla ricchezza della Buona Novella di Gesù. Entro questa sintesi estrema si può riassumere una sorta di storica messa in stand-by dei dieci comandamenti, considerati come qualcosa di ovvio, di implicito. Abbiamo dato per scontato che un cristiano non dovesse uccidere, rubare, dire falsa testimonianza, tanto da non doverci soffermare troppo sul significato di queste parole lapidarie, dandone per scontata la conoscenza, la comprensione l’attribuzione di valore. Se e quando abbiamo continuato a credere, abbiamo concentrato la nostra attenzione su altri aspetti della fede, più evoluti, meno minimali, più adeguati ai tempi.

Nel frattempo la polvere dell’incuria ha cominciato a posarsi su queste parole che hanno iniziato a perdere, in parte, il loro potere illuminante sui fatti della vita. Così, ad esempio, è accaduto che non abbiamo pensato che non rubare, potesse essere riferibile anche al mancato pagamento delle tasse o allo sfruttamento del lavoro di persone disperate o, comunque, prive della possibilità di scegliere. È accaduto anche che l’analfabetismo catechistico di nuova generazione includesse la mancanza di conoscenza del segno della croce, del padre nostro e dei dieci comandamenti. Su questa assenza, forse, è nata l’intuizione della formula del cammino delle 10 parole: non rintracciarle più nel patrimonio, nel sapere, nel vissuto delle persone e delle giovani generazioni, in particolar modo, ha fatto sorgere il desiderio di dirle di nuovo, offrendo, tramite esse una sintesi del senso profondo della fede cristiana. Come nel caso della piccola chiesa chiusa per un terremoto, così la percezione dell’assenza delle 10 parole nel linguaggio di giovani e ragazzi, fa pensare, restituendo il potenziale che esse potrebbero liberare nella loro vita.

Cosa può significare: non avrai altro Dio al di fuori di me? per i cosiddetti nativi digitali, per l’umanità opulenta dell’occidente, per chi sente di non avere futuro o per chi fonda le proprie certezze su quanto ha faticosamente costruito nella sua vita?

Pensare una catechesi che rimetta al centro, uno alla volta, questi messaggi ha un significato pedagogico chiaro: ascoltare, scrutarne il valore profondo per la vita di ciascuno, condividerne in forma comunitaria l’eco, per andare oltre la “regola” che essi ci offrono. Mi sembra una proposta intitolata all’essenziale, rappresentato dalle scarne 10 regole antiche, non dato per scontato, ma ri-compreso alla luce dell’attualità e della contemporaneità della vita, attraverso un itinerario didattico preciso.

In questo senso la proposta supera il rischio di essere nostalgica o della semplicità ad ogni costo: la vita è complicata e le 10 parole non ne riducono la difficoltà, rappresentano però una bussola che può aiutare la comunità che si ritrova per comprenderle meglio, ad orientarsi in essa, nonostante i terremoti che ogni tanto ne scuotono le fondamenta.

 

GIOVANI DI PAROLA
L’esperienza dell’AC della Diocesi di Fano Fossombrone -Cagli – Pergola

Sentieri N5_High_Affiancate_Pagina_07_Immagine_0004“L’ignoranza delle scritture è ignoranza di Cristo”. La maggior parte dei cattolici “ferrati” attribuisce la citazione a San Girolamo, chiedendolo ad un giovane della Diocesi di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola la paternità verrebbe sicuramente affibbiata a “Giovani di Parola”.  (Scopri la diocesi di Fano su http://www.fanodiocesi.it/)
“Giovani… di Parola” nasce come risposta a un’esigenza diffusa e condivisa, emersa lampante a un campo-educatori di AC del settembre 2011 che tenemmo vicino ad Ancona per partecipare anche noi al XXV Congresso Eucaristico: rimettere al centro le Scritture, studiarle, conoscerle e meditarle.
Già a giugno 2011, da don Armando Matteo all’Assemblea Pastorale della nostra diocesi era giunto forte l’invito a non essere (o continuare a essere) “cristiani per convenzione, ma per convinzione”.
Così ci siamo resi conto che un primo passo verso questa fede consapevole era quello di riappropriarci personalmente della Mensa della Parola, una priorità che molte volte lasciamo in secondo piano, presi “dall’organizzare e dal fare”.

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prima una lectio divina, poi l’aggiunta di momenti di confronto e gesti significativi

Perché questo nome? Una duplice valenza:
–   per darci l’ambizioso obiettivo della “Fedeltà” a Gesù Cristo e alla Sua Parola;

–   perché “Giovani… di Parola” è un appuntamento pensato per tutti i giovani: dai tanti ragazzi impegnati come operatori pastorali nella nostra diocesi (di tutte le associazioni e movimenti) agli universitari fuori sede, per chi frequenta la parrocchia ma non è necessariamente coinvolto negli impegni pastorali, per chi sente la necessità di accostarsi alle Scritture con regolarità e metodo.
E perché poi, di fronte all’antichità millenaria della Scrittura, siamo veramente tutti giovani. Anche chi ha qualche hanno in più. Veramente per tutti.

Gli strumenti? Bibbia, penna, matita, gomma, fogli/quadernino per appunti e soprattutto un po’ di tempo per l’Ascolto paziente e profondo.
Giovani di Parola ha assunto nei primi due anni di vita la forma della semplice Lectio, tenuta da un religioso/a, alla quale i giovani della Diocesi intera erano invitati a partecipare.

Per i due anni successivi è diventata un incontro più strutturato in cui oltre all’ascolto ed alla riflessione sono stati aggiunti dei gesti ed un momento di confronto. Con l’obiettivo di arrivare nelle parrocchie più disparate della Diocesi gli incontri hanno iniziato ad essere alternativamente zonali e diocesani.

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Partire dalle Scritture per compiere un percorso di approfondimento è una strada positiva. Dalla parola alla vita il salto è breve. Essere cristiani significa esserlo tutti i giorni, in ogni occasione e quella Parola ascoltata, confrontata e interiorizzata si traduce in grazia, testimonianza viva e promessa.

Nell’ultimo anno Giovani di Parola si è evoluto in “Giovani di Parola e Partecipazione”: a due incontri incentrati sul tema della Misericordia sono susseguiti due incontri in cui la Parola si tesse con la Vita. Sono stati ospiti di “Giovani di Parola” dei ragazzi che scontano la loro pena detentiva alla Comunità Papa Giovanni XXII ed uno dei responsabili della Fattoria della Legalità legata a Libera.

L’evoluzione futura? “Giovani di parola” è nato dalle esigenze dei Giovani di una Diocesi delle Marche e si è evoluto aderendosi al loro modo di cercare Cristo, il domani non può essere altro che la concretizzazione delle loro necessità di essere cristiani per convinzione nei modi che meglio permetteranno loro di sentire la vicinanza del nostro Signore.
L’equipe Giovani di AC della diocesi di Fano Fossombrone Cagli Pergola.

 

 

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L’esperienza che nasce da un’esigenza

I fatti e le Parole
Maria-Chiara Michelini legge per noi l’esperienza di Fano

Giovani… di Parola non è solo un’efficace espressione linguistica, ma, soprattutto una felice esperienza a misura di giovani impegnati nella Chiesa. Analizziamo alcune caratteristiche che la rendono un esempio interessante e potenzialmente fecondo.

Anzitutto è un’esperienza che nasce da una valutazione autentica, si direbbe in gergo pedagogico. Giovani… di Parola, infatti ha origine da un gruppo di giovani impegnati nella chiesa, che hanno considerato attentamente e autonomamente le proprie esigenze, nello specifico, di riappropriazione della Mensa della Parola.

Questo principio, apparentemente semplice e scontato, trova molte resistenze in campo educativo. Si tende a ritenere di sapere che cosa sia bene, o che cosa sia preferibile, per le persone di cui ci si sta occupando, e non a considerare prioritario creare le condizioni perché ciascuno si interroghi ed esprima le proprie esigenze. Tale principio non dipende dall’età cronologica per cui, ad esempio, al di sotto di una certa soglia non valga. L’assioma è universale e, per noi cattolici, discende direttamente dall’essere creature pensate e volute libere dal Dio creatore. Che cosa vogliano i giovani di oggi, che esigenze abbiano, va, anzitutto domandato ai giovani stessi, mettendoli nelle condizioni di comprenderlo da sé. Non è un caso che i giovani della Diocesi di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola abbiano scoperto e manifestato tale esigenza nel corso di un campo scuola di educatori di AC, preparatorio al XXV Congresso Eucaristico. Quella era, come le tante iniziative analoghe, una situazione di confronto, di approfondimento, di scambio di espressione di sé.  La Chiesa, madre e maestra, ha il dovere di creare queste occasioni, questi ambienti in cui le persone possano riflettere e manifestare le proprie esigenze profonde. Naturalmente abbiamo ben presente il rischio di una deriva autoreferenziale; per evitarlo occorre anche accompagnare l’interpretazione di quanto emerso, attraverso il dialogo e il confronto a più voci. Certamente, però, la voce che non può mancare è quella dei soggetti, nel nostro caso i giovani, che devono poter far sentire la propria voce nella Chiesa (e non solo ovviamente), devono potersi interrogare sui propri bisogni e sulle modalità con cui interpretarli.

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i giovani vanno cercati e seguiti nei loro percorsi esistenziali

Le resistenze all’affermazione di questo principio, sono in gran parte riconducibili alle concezioni trasmissive ed etero-dirette che, sotterraneamente, governano i modelli educativi ed organizzativi prevalenti anche in campo ecclesiale, in cui predomina la preoccupazione dottrinale (che cosa è bene che i giovani facciano, che cosa è necessario che i giovani sappiano per….etc.). Giovani… di Parola, al contrario, è l’esempio di un modello che da fiducia ai giovani, non pretende di sapere sempre e comunque cosa essi preferiscano, ma al contrario desidera anzitutto ascoltarli e, sull’esempio di Gesù chiedere loro: «E voi chi dite che io sia?».

I giovani di FFCP hanno espresso la loro autonomia, letteralmente, dando un nome ad un’esigenza che si sono riconosciuti da sé. Alla Chiesa locale va il merito di aver creato le condizioni perché tale esigenza potesse emergere e, successivamente, realizzarsi concretamente.

Una seconda caratteristica interessante è legata alla disseminazione territoriale dell’iniziativa. Gli incontri, infatti, non si svolgono sempre nella stessa sede, né, tantomeno, in quella centrale della Diocesi (nello specifico la città di Fano), ma hanno carattere itinerante, raggiungendo anche le zone più periferiche e geograficamente distanti. Ad un certo punto, addirittura, gli incontri hanno assunto una forma alternata rispetto allo svolgimento (tra zona e diocesi). I giovani hanno così cercato di interpretare in forma dinamica il rapporto centro/periferia della Chiesa locale, a vantaggio del coinvolgimento delle periferie (impervie, isolate, scarsamente popolate) rispetto al centro (citta popolosa, marittima, ben collegata). Ciò ha permesso anche di valorizzare risorse qualitativamente significative. Questa scelta risponde ad una logica pedagogica importante: le persone (i giovani, nello specifico) vanno cercati, in qualche modo seguiti nei loro percorsi esistenziali, non accontentandosi della soddisfazione dei numeri, per cui le iniziative normalmente si svolgono dove è più facile riempire le sale o le piazze. In questo senso il magistero di papa Francesco ci insegna moltissimo e sintetizza, anche per il nostro discorso, molte cose che non serve aggiungere al riguardo.

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I giovani sono di loro natura persone alla ricerca di ragioni, di risposte, di motivazioni. Per questo l’esperienza dell’AC della diocesi di Fano Fossombrone -Cagli – Pergola è significativa: nasce da un’esigenza di approfondimento, ma per trovare risposte al proprio agire, per andare oltre, per incrementare il proprio impegno, per partecipare attivamente alla vita della Chiesa, per crescere insomma! Sicuramente è un’esperienza che è segno di speranza

La terza caratteristica va al cuore di Giovani…di Parola: il riposizionamento tra l’agire e la Parola. I giovani impegnati (e sono tanti e sono meravigliosi) rischiano di venire fagocitati dal fare, dalle esigenze organizzative, dal moltiplicarsi delle iniziative che li vedono coinvolti.  La Parola rischia di essere messa in secondo piano e, con essa, le ragioni profonde del fare. Giovani…di Parola è un esempio, voluto da giovani per i giovani, di come si possano concretamente creare occasioni in cui Gesù possa ripetere l’invito: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’» (Mc 6,31).  Non si tratta, infatti, di incontri immediatamente finalizzati che so, ad un tema che si intenda approfondire, né prettamente organizzativi, in vista di cose-da-fare-per….Sono incontri in cui i giovani incontrano la Parola, con l’aiuto di qualche esperto, per il loro essere persone alla ricerca di ragioni e non di convenzioni.

Come si comprende dall’epilogo della presentazione dell’esperienza, ciò, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non si traduce in una sottrazione di impegno, ma nella generazione di nuove e più autentiche forme di partecipazione attiva alla vita della Chiesa.

In estrema sintesi Giovani… di Parola è un segno di speranza per la Chiesa e un esempio di Chiesa che sia anche dei giovani.

Agesci: dove si cresce nella fede

IMG-20160525-WA0005L’esperienza scout prevede già un’educazione alla fede

Proprio nei giorni in cui gli scout di tutta Italia sono stati accolti in Piazza San Pietro per ascoltare le parole di Papa Francesco, è arrivata la comunicazione da parte del vescovo Giusti e del Consiglio presbiterale, del riconoscimento dato all’AGESCI della zona livornese come luogo dove si compie, in comunione con la Chiesa locale, il cammino di iniziazione cristiana, con tutte le tappe sacramentali previste.

Don Francesco Fiordaliso, nato e cresciuto nella diocesi di Livorno, oggi parroco di una delle chiese più a Sud della città, dal 1991 è l’assistente ecclesiastico di uno dei gruppi scout cittadini e tre anni fa è stato nominato responsabile per tutta la zona. Lui non è nato scout, ma dello scoutismo, col tempo, si è proprio innamorato, ci racconta.
Prendendo spunto dal riconoscimento che il vescovo Giusti e il Consiglio presbiterale hanno dato all’AGESCI della zona come luogo dove si compie, in comunione con la Chiesa locale, il cammino di iniziazione cristiana, con tutte le tappe sacramentali previste ci ha raccontato la sua esperienza e quella dello scoutismo livornese.
«L’opportunità di inserire nel cammino scout la formazione sacramentale era in fase di valutazione da diversi anni in diocesi. Insieme ad un altro giovane sacerdote ci eravamo occupati di studiare il progetto e poi, dopo essere stato sottoposto al Consiglio presbiterale, è stato approvato».
scout2 ScoutIl cammino educativo dello scoutismo AGESCI si propone già di per sé di formare la persona a fare scelte mature per diventare un buon cittadino e cristiano, “uomo e donna della partenza” come si dice nel mondo del fazzolettone.
«Il nostro compito è quello di mettere ogni ragazzo e ragazza nelle condizioni di fare queste scelte. Alla base c’è sempre l’educazione alla fede. E inserire la formazione ai sacramenti è proprio la conseguenza.»
Le tappe scout ripercorrono quelle della vita cristiana: quando il bambino entra nel branco a 8 anni e fa la prima esperienza di accoglienza gli viene chiesto, nel caso ancora non lo avesse fatto, se voglia ricevere il battesimo. Alla fine del primo anno, tutti coloro che avranno espresso questa volontà vivranno la loro nuova vita nella comunità che li accoglie.
IMG-20160525-WA0006«Il secondo anno nel branco, è il cammino che porta a prendere coscienza del sacramento della riconciliazione. Al termine del terzo, all’età di 11 anni, i bambini che hanno deciso di proseguire, ricevono la prima comunione.»
A questo punto avviene il passaggio nel reparto dove ogni ragazzo seguirà un percorso personale che passa per tre tappe: la scoperta, la competenza e la responsabilità. Raggiunta l’ultima, gli verrà riconosciuta la coscienza di essere responsabile verso i più piccoli e ciò che succede intorno a lui in modo attivo. «Questo segna anche il momento della cresima.»
Teoricamente i ragazzi che intraprendono il cammino verso i sacramenti non dovrebbero avere un cammino differenziato perchè già nell’esperienza scout si educa alla fede, ma come gruppo, quello della zona di Livorno ha deciso di programmare momenti specifici per approfondire il significato del sacramento che i ragazzi andranno a ricevere. Per gli educatori si affianca alla formazione canonica, una serie di incontri specifici per poter acquisire competenze più particolari sulla vita cristiana. Questi momenti vengono pensati e vissuti insieme a tutta la zona e fanno capo ad un responsabile e agli assistenti ecclesiastici dei diversi gruppi. «In ogni caso, non esiste una regola, ogni gruppo può decidere o meno se intraprendere il cammino di iniziazione cristiana».
Livorno-10Quello che cambia rispetto al tradizionale catechismo in parrocchia è il diverso approccio,  spiega don Francesco: «L’educazione alla fede in AGESCI, applica le linee fondamentali della chiesa italiana con una catechesi che da sacramentale diventa una catechesi per la vita, vissuta in modo esperienziale. E forse è proprio questo aspetto che fa sì che dopo la cresima siano pochi i ragazzi che lasciano il gruppo, cosa che nelle parrocchie succede più spesso».

Che questo possa scollegare i ragazzi dalle proprie comunità parrocchiali? «La scelta nasce proprio dalla possibilità di proporre un cammino unico, vissuto all’interno del gruppo. È nell’associazione che i ragazzi fanno esperienza di chiesa, mentre la loro comunità parrocchiale la sentiranno comunque visto che ogni gruppo è inserito in una parrocchia della diocesi. Alla fine del loro percorso sarà una loro scelta quella di decidere se continuare a vivere la vita di chiesa nel gruppo o nella parrocchia di appartenenza».

Giulia Sarti

 

don francesco e scoutLa fede come esperienza di vita
di Maria-Chiara Michelini

«L’educazione è, perciò, un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro. […] Quell’educazione che non si compie per mezzo di forme di vita, forme che vale la pena di vivere per loro stesse, è sempre un inadeguato sostituto della realtà genuina e tende a impastoiare e a intorpidire. […] Compito dell’insegnante è semplicemente quello di determinare, sulla scorta di un’esperienza più grande e di una più matura saggezza, come la disciplina della vita dovrà giungere al ragazzo.»

Abbiamo deciso di iniziare questo articolo con la citazione di parole di un grande pedagogista (che sveleremo a breve), il quale esprime concetti di grande ampiezza, modernità e aderenza al tema sollevato dall’intervista su l’AGESCI livornese come luogo dove si compie, in comunione con la Chiesa locale, il cammino di iniziazione cristiana, con tutte le tappe sacramentali previste.

Il senso della decisione della chiesa livornese da un punto di vista pedagogico, infatti, è riconducibile al concetto di esperienza autenticamente educativa, come inserimento in un processo di vita reale. Lo scoutismo rappresenta una tipica proposta di formazione alla fede cristiana attraverso un’esperienza concreta, con caratteristiche specifiche e riconoscibili, ben note alla comunità ecclesiale e civile. Chi entra negli scout viene educato alla fede attraverso un itinerario di vita comunitaria, adeguato all’età dei partecipanti, secondo una progressione di tappe precise. La proposta di fede passa attraverso un’esperienza concreta, non tanto o non solo, attraverso  comunicazione verbale e trasmissione teorica, forme queste ultime che il nostro autore misterioso considera inadeguati sostituti della realtà genuina che tendono a impastoiare e a intorpidire, richiamando in noi l’immagine di sguardi spenti e sbadigli prolungati di ragazzi che ascoltano dotte lezioni.

GBindi_Centenario_Lupettismo_Zona_Livorno_0000La catechesi svolta nel contesto a cui facciamo riferimento, è esperienziale, nel vero senso della parola, trattandosi non solo di un metodo in cui i ragazzi fanno attivamente qualcosa, ma di un’esperienza di vita a tutto tondo, che trova il suo senso e la sua spiegazione nelle fede cristiana. Ciò che i gruppi scout fanno ha un valore per sé stesso, non solo in vista della vita futura. La catechesi, infatti, non dovrebbe solo essere preparazione, ma vita vissuta alla luce del vangelo, che vale per il momento presente, non solo per quello che verrà.

La scelta della chiesa livornese è in sintonia con questa concezione di esperienza e di esperienza di fede, pertanto, da un punto di vista pedagogico è perfettamente in linea anche con l’istanza dell’autenticità dei percorsi di preparazione immediata ai sacramenti.
Veniamo ora al compito dell’insegnante che noi interpreteremo nel senso del catechista educatore, animatore o guida, che dir si voglia. La sua missione è quella di decidere come la disciplina della vita dovrà giungere al ragazzo, cioè di organizzare l’esperienza come immersione nella vita di fede. Don Francesco Fiordaliso, spiegando l’articolazione della proposta scout, descrive le scelte fatte in questo senso, interpretando i sacramenti come segni delle tappe previste.

papaTutto questo esige la scorta di un’esperienza più grande e una più matura saggezza da parte degli adulti che organizzano il cammino di fede. Esperienza e saggezza che vanno coltivati e aumentati, progressivamente, in quanto non sono semplice portato della maggiore età vissuta, ma, soprattutto del maggiore profondità e autenticità ricercate come comunità educante.

É arrivato il momento di svelare il misterioso autore della citazione. Si tratta del grande pedagogista John Dewey, padre dell’attivismo pedagogico. Le parole menzionale sono tratte da Il mio Credo pedagogico, pubblicato originariamente nel 1897. La data fa pensare, se possibile, ancora di più alla modernità della sua affermazione. Egli conclude Il mio Credo pedagogico con un’espressione che vorremmo interpretare come buon augurio per tutti quelli che faticano nel cercare di proporre vere esperienze di fede alle giovani generazioni: «In tal modo l’insegnante è sempre il profeta del Dio vero e l’annunciatore del vero regno di Dio.»

giugno 2016