*di Carmine Taddeo*
Oggi come oggi, sembra quasi utopico accendere la televisione ed auspicare che ti cambi la giornata con buone notizie; tutte le volte che lo si fa, infatti, sembra di dover percorrere quella “via del dubbio e della disperazione”, di matrice hegeliana. Ovunque si vedono morti, volti sconosciuti di cui viene data notizia della scomparsa o dipartita, senza in realtà, lasciarci nulla. Oggi la morte non fa più notizia; si vive e sopravvive alla tragedia come fosse una cosa di routine. Tuttavia, quello che non si comprende, che non si pensa, che si dimentica, è che dietro un volto, dietro occhi, dietro mani, dietro un corpo, c’è una persona viva, che prova a respirare ogni attimo della sua vita. È facile parlare di settecento morti nel mar Mediterraneo e poi lasciare che la notizia mi turbi fino a che non volto la pagina del giornale o il telegiornale non cambi notizia. C’è tanta povertà nel mondo, ma questo termine può predicarsi in modo analogo. La povertà non è solo di coloro che non hanno nulla.
La povertà è di quelli che non sanno accogliere, di quelli che la speranza la tolgono invece di donarla. La povertà si insinua nei cuori di chi non si mette a servizio, di chi non si fa famiglia. Dunque ecco una notizia che i telegiornali non passano, ci sono persone che non hanno nulla e si arricchiscono dell’amore che altri gli donano; la cosa bella è che quell’amore non rimane fine a se stesso, ma viaggia ancora e loro lo ridonano in un circolo virtuoso che, a quanto sembra, non intende terminare. Immergiamoci in una realtà familiare: la basilica del Sacro Cuore a Castro Pretorio, la nostra parrocchia, la nostra chiesa, la nostra casa. Quanta gente è possibile vedere passare in un posto come questo, nel cuore di Roma? E quanta povertà può fare da contorno a un posto del genere? Entriamo ancora di più nel dettaglio; c’è qualcuno che prova a fare la differenza? Oserei dire che sì, c’è qualcuno che prova a mettersi in gioco. Sono circa trecento, infatti, i giovani che si impegnano per portare un po’ di luce in questo mondo dal cuore di tenebra. Basta chiedere ai volontari che si dedicano ai rifugiati. Tutti questi giovani rifugiati, infatti, arrivano in Italia dai paesi più disparati e a volte senza speranza, dopo viaggi estenuanti, dopo aver vissuto sulla propria pelle esperienze disumane. Le testimonianze sono state tante e tutte colpiscono per la lucidità e la crudezza con cui questi ragazzi hanno il coraggio di raccontarle. Dunque non si può restare con le mani in mano. Ci si riunisce per offrire loro l’opportunità di studiare italiano, per imparare la lingua e trovare un futuro, gli si insegna a guidare e gli si da la possibilità di fare l’esame della patente; gite e cineforum diventano momenti per andare loro incontro e sentirsi famiglia. Si cerca di dare loro l’assistenza necessaria per ritornare a vivere. Colpisce tanto che tutti questi giovani di religioni diverse, di confessioni diverse, siano insieme e dicano “il Sacro Cuore è la mia casa” oppure “io sono figlio del Sacro Cuore”, nel rispetto delle differenze, nella tolleranza, nell’amicizia e nell’amore. Si arriva ad essere famiglia, a condividere ideali; c’è un tale ricircolo d’amore che piano piano coloro che sono stati accolti al Sacro Cuore, che siano essi rifugiati o meno, si ritrovano ad accogliere e a diffondere questa volontà di unione e fratellanza. Ma non finisce qui. Le povertà della stazione Termini sono tante; dunque perché non uscire fuori ad incontrare gli occhi dell’altro? Ecco che la risposta è il progetto di “banca dei talenti”. Ogni venerdì si preparano i panini e, carichi, si esce per trascorre del tempo con tutti i senza fissa dimora che ci sono nei dintorni. Ma non ci si ferma qui; perché non accoglierli anche in casa? La risposta, questa volta, è “piazza grande”. Ogni giovedì le porte si aprono, si condivide il vangelo, la propria vita, il cibo, i propri sogni… Con pazienza, non trascurando ma superando l’oscurità della tragedia, si fa spazio alla luce, si ridona dignità all’essere umano, alla sua persona e non senza considerare il percorso di formazione di ciascuno dei volontari. Non si può lavorare a nulla se non si cresce in sapienza. La cosa più bella, forse, che emerge, è che questo servizio non rimane chiuso nelle ore settimanali che si trascorrono qui in via Marsala; ma diventa uno stile di vita, un mettersi a servizio, un essere a disposizione sempre. La più grande ricompensa per noi volontari, è vedere quegli occhi che finalmente si riaccendono di speranza, con il coraggio di andare avanti, o di aspettare quel momento in cui le porte non ti si chiudono in faccia, ma si aprono per accogliere, per saziare, per dissetare, per vestire e per visitare. E se è vero che, come diceva Dostoevskij, “la libertà, nella sua più alta espressione consiste nel dare tutto e nel servire gli altri”, allora, forse, siamo sulla strada giusta per iniziare ad essere veramente liberi ed essere veramente umani.