Ma la smetti di guardarti allo specchio!? Non pensi ad altro?
Se tu usassi il tempo che perdi per curare il tuo aspetto esteriore per studiare, saresti un genio a scuola!
La finite di giudicarmi per quello che mi metto, per il mio piercing, per il mio tatuaggio!
Ritornelli nella nostra vita di adulti, accuse velate ed esplicite sempre più frequenti, scontri e giudizi sempre più aperti tra giovani e quelli che una volta si definivano i “matusa”.
Quelli della mia età ricorderanno una canzone che trasudava ingenuità e rivolta al tempo stesso, di un gruppo allora emergente e che adesso definiremmo storico, come quello dei Nomadi: “Come potete giudicar?”
“Tutta immagine e nessuna sostanza!” si dice da una parte; “ci guardate sempre con la misura del giudizio senza sapere nulla di noi!” si dice dall’altra.
E con queste, o simili, frasi sigilliamo a mo’ di epitaffio una pietra tombale sempre più pesante su ogni speranza che il mondo adulto, dopo che ha sottratto alla gioventù odierna tutti i più bei sogni ed utopie, smetta di considerarla un problema e cominci finalmente a guardare ad essa per ciò che veramente è, e cioè una risorsa.
Come adulti e come chiesa dobbiamo dirci con sincerità che non sono i giovani che hanno bisogno di noi, ma che siamo noi ad aver bisogno di loro, ma, per giustificare il fatto che ci stiamo appropriando della loro ricchezza, non troviamo nulla di meglio da fare che criticarli togliendo, allo stesso tempo, tutta quella autostima che renderebbe loro una speranza e una vita con maggior profumo di autenticità.
Cominciamo noi, togliendo dal nostro vocabolario le frasi fatte, i concetti abusati, i luoghi comuni del pensare e diciamo con franchezza: “certo che i giovani danno importanza alla loro esteriorità! In un mondo in cui lo sport nazionale è il giudizio impietoso, perché non dovrebbero curare ciò per cui inevitabilmente verranno inquadrati e misurati? Cioè la loro immagine pubblica?
È inevitabile: il presentarsi sulla scena del mondo, fornisce i simboli primordiali della comunicazione all’esterno di sé. Ed in questa società, che non è certamente propensa all’approfondimento, ad una evoluzione di pensiero, ad una dinamica di ripensamento o di conversione “la prima impressione è quella che conta!” e diventa determinante!
Che cosa sto cercando di sostenere? Che sono favorevole ad una vita tutta estetica ed esteriorità? Che i nostri giovani non debbano curare la loro spiritualità perché tanto nessuno la prenderà in considerazione? Che questa relazionalità effimera sarà, adesso e sempre, la modalità con cui dovranno confrontarsi e a cui, quindi, dovranno essere preparati?
Certamente ed inequivocabilmente NO!
Vorrei solamente andare oltre il luogo comune e cercare di affrontare la questione nella sua complessità.
Se (primo passo) la nostra dimensione simbolica è l’inevitabile linguaggio con cui ci presentiamo al mondo;
se (secondo passo) noi tutti ormai sappiamo che la “verità” sta nel rapporto tra un soggetto ed un oggetto e non è quindi solamente una proiezione dell’io, ma una relazionalità in cui la dimensione esteriore riveste un ruolo fondamentale;
se (terzo passo) non cominciamo a diffondere modalità di accesso al proprio io, un io fatto di dialogo, di rivelazioni, di profondità, allora…
non possiamo meravigliarci se in chi più si sente sottoposto al giudizio, in chi soffre preliminarmente di cedimenti nell’autostima, che non ha ancora preso autentica coscienza di sé, tutto si esaurisca nella pura e semplice esteriorità.
Affermato questo che costituisce una difesa, non d’ufficio, del mondo giovanile (che peraltro non mi pare che ne abbia particolare bisogno, dato che continua a vivere per la sua strada, incurante delle critiche e sempre più manovrato da chi sfrutta e gode delle sue carenze), ma che vuole soprattutto essere una presa di coscienza che mi appare indispensabile, facciamoci una domanda:
come proporre a noi tutti una maggiore attenzione alla dimensione spirituale ed interiore?
Ovviamente questo comporterebbe una rinascita della dimensione educativa, proprio quella che gli adulti di oggi hanno abbandonato, ma soprattutto un itinerario di conversione che convinca invece i giovani della assoluta necessità del rivolgersi dentro, alla ricerca del più vero, del più buono, del più bello.
Di quelle realtà che non scompaiono con gli anni, di quella responsabilità verso gli altri di cui spesso non sono stati oggetto, di quella libertà dal giudizio, dalle consuetudini, dalle voglie e dagli istinti che così ampiamente dominano.
La eliminazione del “tutto e subito” e la consapevolezza della necessità del tempo, dell’acquisizione graduale, della necessità che questo spesso vada oltre la soddisfazione e anche la consolazione spirituale, perché la responsabilità e il dono sono affari seri e difficili.
Cominciare col togliere alla nostra quotidianità la dimensione della competizione, la dimensione della forza e del machismo esistenziale, dell’”uomo che non deve chiedere mai”! Certo che dobbiamo chiedere, manifestando i nostri bisogni, i nostri limiti. Per questo ho intitolato questo breve intervento con l’adagio, se vogliamo anti-sportivo, di Alex Langer.
Una canzone del mio tempo mi sorge alla coscienza: Ahi Velasquez di Roberto Vecchioni.
Un testo che evocava la stanchezza e la sofferenza, ma anche la consapevolezza della necessità (se vogliamo anche egoistica) dell’impegno e della cura per l’altro, una musicalità che si ritmava con le onde di un mare in tempesta, una chitarra che struggente conduceva per mano l’ascoltatore al dubbio e alle certezze.
Come tutti i vecchi sto correndo il rischio di affermare: “Ai miei tempi…” c’erano anche di queste canzoni, si pensavano queste cose, si credeva in questi valori…
Non voglio cedere a questa tentazione, vorrei solo anche io diventare capace, di fronte ai giovani che frequento, “come siete belli! Adesso cerchiamo tutti, io e voi, di diventare sempre più interessanti e importanti l’uno per l’altro!
Come già detto; sono io ad averne bisogno!