TI VOGLIO INCONTRARE

*di don Simone Barbieri

COME PIETRO, COME PAOLO…
SUL LAGO DI GALILEA, SULLA VIA DI DAMASCO

Come Pietro, come Paolo
Due dei tanti personaggi che nel Nuovo Testamento hanno incontrato Gesù. Pietro ha conosciuto Gesù anche durante la sua vita terrena, ma ciò che li accomuna è l’aver incontrato il Cristo Risorto, come ci testimonia lo stesso Paolo: «apparve a Cefa… ultimo fra tutti apparve anche a me» (1Cor 15,5.8). I testimoni della resurrezione hanno sicuramente avuto un dono grande. Talvolta i ragazzi si domandano perché Gesù non ci appaia a noi risorto come apparve a Pietro, Paolo e tante altre persone. Sarebbe più facile credere. La sfida sta nel far comprendere loro che Cristo, seppur in modalità diverse, lo si può davvero incontrare anche oggi. Non ci apparirà risorto, nel senso che non lo percepiremo con i cinque sensi, ma possiamo avvertire la sua presenza con i sensi spirituali. Noi adulti sappiamo bene cosa voglia dire incontrare Cristo, ma non riusciamo a spiegarlo ai più giovani, perché non è spiegabile: è un’esperienza interiore così particolare, unica e bella che non ci sono le parole per descriverla. L’unica prova indiretta di questo incontro che possiamo e dobbiamo offrire ai ragazzi è la
nostra testimonianza di vita. Un adulto, un educatore che ha incontrato il Risorto lo si riconosce. La stessa testimonianza degli apostoli è la prova indiretta più importante della Resurrezione: pur di non negare di aver visto il Risorto hanno preferito morire.
Sul lago di Galilea, sulla via di Damasco La testimonianza dell’adulto, quella in particolare dell’educatore, non è però sufficiente a suscitare la fede nei giovanissimi. Sicuramente ne rimangono incuriositi e si rendono più disponibili ad una ricerca, ma è indispensabile che facciano esperienza diretta del Signore. In qualche momento e in qualche luogo preciso, così come fecero Pietro sul Lago di Galilea, Paolo sulla via di Damasco e tutti gli altri. Così come abbiamo fatto noi adulti.

Quali sono i luoghi in cui si può incontrare il Signore? Direi essenzialmente tre: la liturgia e l’adorazione eucaristica; l’ascolto della Parola di Dio; il servizio. La liturgia è il momento solenne in cui cielo e terra si congiungono e noi possiamo pregustare la bellezza della vita eterna. Una liturgia ben curata, senza troppi orpelli, che faccia percepire il sacro può essere davvero il luogo dell’incontro col Risorto. Così come l’adorazione eucaristica, che della liturgia è un’appendice: non manchino mai per i giovani momenti di adorazione, soprattutto nei campi estivi ed invernali e in particolari occasioni come i ritiri. La Parola di Dio, se letta e pregata con fede, è un altro luogo in cui Dio ci parla e parla al cuore dei giovani. Importante offrire dei momenti di meditazione delle Sacre Scritture agli adolescenti, durante i quali insegnare loro come ci si mette in un atteggiamento di ascolto, perché arrivino magari alla meditazione quotidiana del vangelo del giorno. Infine il servizio. Questo aspetto credo che sia il più carente nelle nostre comunità parrocchiali. Si fa fatica a trovare servizi per i giovanissimi che non siano l’aiuto-catechista. Qualsiasi tipo di servizio ci pone in un atteggiamento di attenzione verso coloro che serviamo e ci fa sperimentare che c’è più gioia nel dare che nel ricevere. Ci dà quindi l’opportunità di sentirsi vicini al Signore che ha donato la sua vita per noi.

L’URLO DI MUNCH E L’ANCORA DEI PRIMI CRISTIANI

*di mons. Simone Giusti

Il quadro “L’urlo” di Edvard Munch, venne esposto per la prima volta nel 1902, inserito in un ciclo di sei tele che non a caso s’intitolava Studio per una serie evocativa chiamata Amore.
Dirà l’autore: Ho sentito la natura che gridava e ho dipinto questo quadro e le nubi con vero sangue. I colori gridavano. Nel suo diario, Munch descrive la situazione che diede origine a quell’immagine: Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò – il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. – Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata – Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco – I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura – e sentii un urlo infinito pervadere la natura. Poi ho dipinto questo quadro. Ho dipinto le nubi con vero sangue. I colori gridavano. Una scena che evoca l’angoscia del Golgota e le parole di Cristo rivolte al Padre. Come si può vivere?
Come è possibile “affrontare il nostro presente”, spesso segnato dallo smarrimento e dal dolore? Come sopportare ogni giorno la fatica del vivere? In effetti noi udiremo il grido solo se in articolazione con la necessità di amore che ci abita fino alla fine. Ora, se quel quadro è divenuto così emblematico, è perché va al di là della rappresentazione del mero terrore individuale. In verità schiude a tutti noi, illuminandolo, il senso tragico dell’esistenza. In quell’immagine sono condensati tutti gli urli umani, quelli emessi così come quelli soffocati. Schopenauer individuava il limite delle possibilità espressive dell’arte esattamente nella sua incapacità di far udire il grido. È appunto il contrario che Edvard Munch s’impegna a dimostrare. In qualunque campo ci muoviamo, è fondamentale preservare la possibilità di ascoltare il grido, il nostro stesso grido e quello altrui (l’uno e l’altro così difficili da accogliere). Pensiamo al bambino. Quando si sente abbandonato nel buio della notte non gli rimane che il grido. La vita inizia con l’essere sperimentata come un caos, per il quale non esistono nomi possibili. Ha una percezione confusa del suo proprio corpo. Ha perduto il calore della placenta che lo proteggeva nello stadio intrauterino e in questo momento è separato dall’abbraccio materno. Si sente gettato fuori, esposto alla vita che non sa controllare. Allora grida. Piange. Un’esperienza primordiale che ritornerà in altri momenti della nostra esistenza.

Pensiamo al bambino. Quando si sente abbandonato nel buio della notte non gli rimane che il grido. E il grido è la forma fragile e intensa con cui la sua vita parte alla ricerca di altre vite che possano soccorrerla. Il grido è un appello, una supplica, una richiesta, una sorta di preghiera: le corde della voce partono, nel cuore della notte, in cerca di un attracco. Nei Vangeli, per esempio, si dice che Gesù morì emettendo un duplice grido. Il primo, liberando le parole: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (oppure «Dio mio, Dio mio, a cosa mi hai abbandonato?», come preferiscono alcune traduzioni). Ma, una volta proferite tutte le parole sulla croce, gli evangelisti Marco e Matteo raccontano che Gesù dà un altro forte grido. E in quello stesso momento il velo del tempio
si squarciò in due, consentendo un altro regime di rivelazione.1
La fede nella risurrezione di Gesù – non la rianimazione del suo cadavere, ma l’ingresso della sua stessa condizione umana nel mondo delle cose invisibili che forma il valore aggiunto della creazione di Dio – trafigge la mente dell’umanità intera: nessuno aveva mai osato lanciare un simile annuncio dell’importanza della vita che viviamo, nella carne e nel sangue. Questa speranza ci accompagna nella vita. I primi cristiani dipingevano la speranza con un’ancora, come se la vita fosse l’ancora gettata nella riva del Cielo e tutti noi incamminati verso quella riva, aggrappati alla corda dell’ancora. E’ una bella immagine della speranza: avere il cuore ancorato là dove sono i Santi, dove è Gesù, dove è Dio. Questa è la speranza che non delude. La speranza è un po’ come il lievito, che ti fa allargare l’anima; ci sono momenti difficili nella
vita ma con la speranza, l’anima va avanti e guarda a ciò che ci aspetta. «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso» (1Gv 3,3). Anche la speranza ci purifica, ci alleggerisce; questa purificazione nella speranza in Gesù Cristo ci fa andare in fretta, prontamente.

LA COMUNICAZIONE AL TEMPO DEL COVID-19

*di Dario Caturegli*

È innegabile che al tempo del covid-19 la comunicazione più usuale tra persone sia cambiata e ridotta: minori spostamenti tra città e
regioni e soprattutto minore e diversa interazione tra umani: anche terminato il lockdown, abbiamo ancora limiti numerici negli assembramenti; ma soprattutto è stato sconvolto il sistema, il codice delle relazioni comunicative. Si parla di codice nel senso che da millenni gli uomini hanno usato delle modalità condivise per esprimere se stessi, per aggiungere alla parola altri elementi che ne chiarissero e articolassero il messaggio.
In tal senso, come insegna Jakobson e la Scuola di Palo Alto, è evidente che certi scopi della comunicazione (per esempio impartire ordini) debba essere sottolineata, oltre che dal messaggio verbale, anche dal tono della voce e dall’espressione. Anzi, questi, risultano essere ancora più importanti delle parole, se è vero che il 70% della comunicazione si basa su elementi non verbali: il tono della voce, la mimica, i gesti, gli odori.

Importanza rilevante riveste anche la prossemica (che studia il significato che lo spazio assume nelle interazioni comunicative). Pensiamo che pregnanza comunicativa assume, per esempio in ambito scolastico, parlare dall’alto dalla pedana di una cattedra o girare nei banchi avvicinandosi a ciascun alunno. Il codice prossemico, nel primo caso, con la distanza spaziale docente-alunno, chiarisce, pur in assenza di parole, che c’è una sola autorità, che è distante e superiore agli alunni, con i quali si instaura una relazione formale e gerarchica (la pedana pone il docente ‘più alto’ rispetto al piano degli alunni). Nel secondo caso la distanza è ridotta, il docente che passeggia tra i banchi, è alla stessa altezza degli alunni, li incontra con distanze minime. Il messaggio è evidente: non c’è volontà di separazione ma piuttosto di interscambio comunicativo ed educativo; tra docente e discente sarà quindi più facile una forma di collaborazione e di maggior attenzione alla persona. Il codice della distanza spaziale (la prossemica), ovviamente, lo ritroviamo
anche in altri contesti comunicativi. In chiesa, per esempio, un conto (e un messaggio) sono i fedeli allineati nelle panche e un altro
quando si chiamano i bambini intorno all’altare. Ma questo codice è onnipresente soprattutto nelle relazioni quotidiane tra umani. E
quanta importanza hanno (avevano..) la stretta di mano, il colpo sulla spalla, un finto pugno nello stomaco, uno sguardo ammiccante o perplesso, un abbraccio; così come tirare le orecchie per il compleanno, prendere in collo un bambino, baciare come amici o parlare sommesso sfiorando l’orecchio della persona con cui abbiamo e cui esprimiamo la nostra intimità!

Non dobbiamo stupirci, pertanto, se le relazioni distanziate, imposte dalla profilassi covid, ci lasciamo disorientati, impoveriti, con un senso di incompiutezza: per millenni abbiamo usato un codice tattile e prossemico per esprimere le emozioni e i sentimenti, che ora viene impedito. È un po’ come se dovessimo esprimerci verbalmente all’improvviso con il solo uso delle consonanti, o senza punteggiatura: insomma con un codice ridotto e maldestro!
Certo, qualcuno penserà, esistono i social, ed essi non hanno restrizioni; possiamo anzi moltiplicare il loro uso, accompagnarlo con messaggi vocali, inserire emoticon, video… ma non riusciremo a ricostruire l’intensità e la ricchezza della relazione concreta e vicina.
E allora? Non possiamo certo sovvertire le regole di prudenza della pandemia in nome della ricchezza della comunicazione. Ma possiamo
sviluppare due attitudini, che se anche apparentemente opposte, si integrano perfettamente: imparare a stare con noi stessi (da soli) e valorizzare ogni momento di incontro con l’altro. Il primo atteggiamento non risponde ad una vocazione eremitale di fuga dal mondo, ma al coraggio di trovare (non rifuggire) del tempo per sé, vedersi nel nostro intimo così come siamo senza infingimenti. Potremmo forse scoprirci meno belli della nostra immagine sociale, ma per questo potremmo maturare una senso di maggiore umiltà, potremmo fare una viaggio di accettazione di sé (una volta avuto il tempo di scoprire eventuali ‘brutture’ interiori) per finire con l’accettare con più pazienza anche gli altri con i loro limiti; potremmo acquisire l’idea che ciascuno, in ogni età ha necessità di un itinerario di maturazione e purificazione. Ma dovremmo, infine, dopo le varie forme di distanziamento dagli altri, riscoprirci di più come animali sociali, cioè uomini che vivono in pienezza solo nelle relazioni umane. E non si tratta, dell’affermazione un po’ stucchevole (perdonatemi!) che “insieme possiamo farcela” ma della ricoperta dell’incontro con l’altro. Che è sempre un mistero da conoscere, che è sempre un dono da scoprire, che è una realtà così ricca complessa e sfuggente da dover essere colta con tutto l’ascolto possibile, con tutta l’attenzione possibile. Quella che si ha negli incontri irripetibili, come sono, appunto, tutti gli incontri tra uomini.

INSTAGRAM, TIKTOK E NOI?
*di Luca Paolini*
Quali sono i social del momento? Dove passano il loro tempo i nostri ragazzi? Quali mondi culturali li stanno influenzando nella rete? Senza ombra di dubbio il social del momento è sicuramente TikTok, che un tempo si chiamava Musical.ly, una app che appartiene alla tanto discussa ByteDance. Questa società cinese recentemente è stata infatti accusata dal governo americano di violare i dati personali degli utenti e di consegnarli al governo cinese; un’accusa pesante che potrebbe portare all’oscuramento del social, almeno negli USA. Ma TikTok di cui parleremo più avanti, non è l’unico riferimento per le giovani generazioni, almeno tra i ragazzi più grandi resiste ancora Instagram, mentre ormai Facebook è rimasto luogo di incontro quasi esclusivamente per gli adulti. Ma vediamo come funzionano e quali opportunità possono offrirci questi social. Instagram che appartiene a Mark Zuckerberg fondatore di Facebook, nasce come un social di condivisione di foto, ma con il tempo si sono aggiunte altre funzioni, le Stories, i video e recentemente gli Instagram reels, video di breve durata (al massimo 15 secondi), nei quali si possono aggiungere effetti particolari, una nuova funzione creata per contrastare l’avanzata impetuosa di TikTok. Tutte le foto e i video possono essere ovviamente commentati e condivisi. Inoltre su Instagram si possono creare gruppi di persone alle quali inviare direttamente e più velocemente i post pubblicati, un modo che i giovani amano per restare in contatto con i loro amici al di là dei gruppi di Whatsapp.
Con Instagram si comincia a parlare di Influencers, persone che hanno milioni di followers e che veicolano messaggi pubblicitari mirati, ovviamente in cambio di lauti guadagni, una delle più famose e più seguite in rete è sicuramente Chiara Ferragni, moglie del rapper Fedez. Ma anche Instagram seppure conti oltre 1 miliardo di utenti, appare ormai ai giovanissimi fruitori di TikTok, perlopiù statico e limitato: primo perché i video di TikTok rispetto a quelli di Instagram Reels durano fino a 60 secondi e poi perché il nuovo social ha introdotto delle funzionalità interattive nei suoi video (oltre ai tantissimi e divertentissimi effetti e le possibilità di customizzarli).
Per esempio su TikTok si possono fare i duetti, cioè inserire in un unico filmato, i propri video accanto a quelli realizzati in precedenza da
altri, in questo modo utenti sconosciuti si collegano a Tiktokers famosi e molto seguiti, nella speranza di “raccattare” più followers. Infatti uno degli obiettivi di chi comincia a fare video su TikTok o fare post su Instagram (e questo sta irretendo milioni di adolescenti), è proprio l’ottenere migliaia di “mi piace” e di visualizzazioni per i propri video e le proprie immagini, in modo da monetizzare (a volte anche consistentemente), il proprio stare sui social. Ecco allora un primo suggerimento per coloro che vogliono utilizzare queste app in diocesi o in parrocchia, per comunicare con i giovani facendo foto e video: svincolarsi decisamente dalla logica dei likes e dei followers, per mostrare invece un modo di stare in rete che guarda più ai contenuti che non al successo e al guadagno facile.
Ma Tiktok ha un’altra grande criticità, forse più di altri social, mette in piazza non il meglio ma più spesso il peggio, della società di oggi.
Non parlo solo dei commenti al vetriolo che si leggono nella piccola nuvoletta in basso a destra dei video, ma anche di cosa viene prodotto dai Tiktokers più famosi, spesso il niente assoluto, ma se piace o non piace, viene comunque premiato dalle visualizzazioni. Diventare Influencer alla fine non è difficilissimo, basta mettersi in bella mostra con i propri video, e se a farlo sono persone con disturbi mentali, o con problemi fisici, saranno sicuramente offesi, derisi o compatiti, ma otterranno comunque una quantità di like e visualizzazioni tali da far impallidire anche il giornalista più bravo. Quando un utente raggiunge più di 1.000 followers, anche se non ha niente da dire, acquisisce la possibilità di fare una “Live”, una diretta, per incontrare in tempo reale i propri fans e chattare con loro, magari condividendo momenti insignificanti della propria vita: quando fa colazione, quando gira per strada, quando lavora, persino mentre è alla guida (TikTok purtroppo non censura questo tipo di video pericolosissimi), l’importante è essere visti e considerati dal proprio pubblico. Instagram, TikTok, social dunque da evitare? Sicuramente da conoscere, da frequentare per aiutare i nostri adolescenti a non cadere nella trappola del successo a tutti i costi, anche a rischio di perdere la propria dignità. In ogni caso con i nostri ragazzi possiamo partire da alcuni esempi positivi di sacerdoti, suore, semplici credenti che sono presenti su TikTok con i loro video, brevi, anche divertenti, ma portatori di un messaggio diverso.

Ne posso citare alcuni:
@donrobertofiscer
@takeawayjesus
@mauro_don
@donalbertoravagnani
@kramercameronlc
L’importante è sempre accompagnare i ragazzi in questo mondo scivoloso, mostrando loro pregi e difetti, esempi positivi e negativi, facendo nascere in loro uno spirito critico che potrebbe preservarli dal fare sciocchezze e stupidaggini. Per chi decide poi di diventare un educatore- tiktoker, facendo video e postando foto, ci vorrà tanta pazienza ed esercizio, ma è importante essere presenti in questa nuova piazza virtuale, per fare in modo che nello scorrere compulsivamente tanti video banali e superficiali con il solo movimento del pollice, qualcuno si fermi a guardarne uno che invece porti a pensare, a riflettere, a meditare, a trascendere l’attimo presente per gettare lo sguardo su un “Oltre” sconosciuto.

Il tempo delle scelte l’importanza educativa e sociale dell’oratorio oggi

*di Monica Calvaruso*

L’oratorio non è solo un luogo, un cortile, una struttura in cui si svolgono varie attività, oggi è diventato un progetto educativo che comprende la catechesi, la preghiera, il doposcuola, lo sport, il gioco, la formazione, i laboratori, le attività musicali, il teatro, il grest: è una realtà ecclesiale luogo di incontro e crescita umana e spirituale. L’oratorio è evoluto ed è  uno strumento pastorale e vivo dell’educazione, che, come afferma don Michele Falabretti direttore nazionale della Pastorale Giovanile, è medicina della Chiesa, esercizio di cura e di comunità: diviene la cosa più bella del mondo se  ben progettato, se la comunità è presente e se gli animatori sono formati adeguatamente. L’ oratorio non è improvvisazione e neppure un modo di fare baby sitter, è un’unica grande azione in cui tutto si sviluppa e cresce, in cui si impara ad essere bravi cristiani e bravi cittadini. L’oratorio è una realtà in continua evoluzione, che va incontro ai giovani in modo dinamico, energetico, che riesce a costruire i legami tra educatore ed animatore, tra animatore e ragazzo in un “mondo” senza spazio e senza tempo. E’ luogo e mezzo di incontro con Gesù. Il ragazzo che frequenta l’oratorio cerca aggregazione e ha bisogno di essere ascoltato, di calore e umanità,  di riconoscersi in un gruppo e diventare un protagonista per i più piccoli, che, raccogliendo la testimonianza, desiderano emularla da grandi. E’ così che nasce la relazione solida e l’accompagnamento spirituale dei giovani che possono essere seguiti da sacerdoti, religiosi, religiose e laici educatori nel periodo delle domande e delle scelte,  in un cammino di conoscenza del proprio progetto di vita. L’oratorio ha questa funzione educativa quando la progettazione diventa un passaggio essenziale dall’educatore all’educato, quando c’è uno studio del territorio, una lettura dei bisogni, quando si pongono obiettivi e dei percorsi da raggiungere insieme, sia come comunità che nel singolo. Queste le tre competenze fondamentali per il progetto educativo: dosare le energie, allenare la riflessività e la verifica. La progettazione educativa è un vero e proprio esercizio di discernimento che ha degli effetti: in oratorio la Chiesa si reinventa; si incontra la realtà; la comunità cresce; si coinvolgono diversi carismi; si tiene accesa e viva la luce della memoria di Gesù nell’ascolto dello Spirito; si assume lo stile dell’animazione parlando il linguaggio dei giovani; avviene l’iniziazione umana alla vita. Oggi l’oratorio ha acquisito una funzione sociale perché le famiglie, prese da una vita frenetica lavorativa, hanno  bisogno di affidare i propri figli a persone sicure, in luoghi tranquilli e più economici   dei vari centri estivi. La domanda educativa e sociale è alta e l’offerta deve essere elevata: piccoli oratori stanno nascendo in molte parrocchie proprio per rispondere a queste necessità, non bisogna cadere nella superficialità e nella fretta. Serve pazienza, serietà e professionalità nelle  parrocchie che sono, quindi, soggetti promotori di programmi e di interventi in aiuto alle famiglie per la diffusione della cultura, dello sport, del divertimento, ma soprattutto della fede. Non dobbiamo dimenticare:  il Vangelo deve essere sempre sorgente e fine di ogni attività oratoriale!

Le caratteristiche dell’educatore alla fede: alcuni tratti fondamentali

Il tempo presente nel quale ciascuno di noi oggi vive è spesso simile al tempo passato: esso contiene una molteplicità di sfide, possibilità, errori, vocazioni etc…  Sarebbe errato pensare al passato come un tempo “perfetto”, un tempo che -in modo nostalgico- non verrà più! Proprio in questo tempo però, vengono sempre più a delinearsi le abilità necessarie per i compiti-vocazioni-missioni ecclesiali, da vivere nella ferialità.

Purtroppo, col passar del tempo, la missione dell’educazione alla fede non solo è passata in secondo piano ma è stata relegata ai soli preti, ai religiosi o a piccoli gruppi; questa missione tanto bella quanto impegnativa è  invece di ogni battezzato, ed è rivolta a tutti gli uomini e non solo quelli che vivono in famiglia ed in parrocchia[1].

Ma è possibile educare o educarsi alla fede, se la fede è un dono? Educare: condurre -chi abbiamo di fronte- fuori ed aiutarlo a “tirare fuori” il meglio di sé ed ascoltare la voce di Dio nella Scrittura.  Ecco che appare evidente che l’educatore non può attrarre a sé (al di là dell’iniziale simpatia/empatia necessarie per una sana educazione) ma deve, con delicatezza ed abilità, condurre fuori  da sé, fuori dall’altro, verso Cristo.

L’educatore è innanzitutto un ragazzo che prega, ascolta ed ama[2] con perseveranza, coraggio e disponibilità.

E’ possibile educare alla fede solo chi ha scoperto di appartenere a Cristo[3], anche se può capitare, non di rado, che chi si ha di fronte non sappia tradurre in parole o non sappia vedere chiaro la presenza del buon Dio. L’educatore quindi non deve abbattersi: l’intuizione del cuore è già una buona strada. Il cammino della vita di fede è un cammino coinvolgente: l’educatore deve essere in grado, cosa che accade anche grazie alla paziente esperienza, di porre -non risposte preconfezionate- ma quesiti riguardo alla vita sia generale che personale[4]. Bisogna ricordare: avere dubbi significa non significa non avere fede! Se abbiamo dubbi Dio ci ama più ugualmente. Si evince che l’educatore deve conoscere, fin dove possibile anche attraverso esperienze personali e comunitarie, la vita del ragazzo.

Essere educatore (e non soltanto farlo) significa andare alla ricerca di Dio ma non senza prendere una decisione o senza fare tagli dal proprio e piccolo universo. Proprio chi educa deve per primo lasciarsi guidare, dare un senso alla propria vita, ricercando la giustizia più grande per tutti, testimoniando l’amore perfino nelle situazioni di incomprensione più difficili e tristi. Forte dell’esperienza personale, del Signore Gesù che “scende” sulle ferite per trasformarle in occasioni di bellezza, l’educatore può testimoniare in azioni concrete questa relazione: la gioia, la comunità, l’umiltà, l’adorazione ed il dono di sé.

Proprio chi sceglie liberamente di educare che deve abituarsi a pensare, progettare e vivere esperienze concrete per far giungere all’incontro pieno con Dio. Sempre l’educatore è consapevole che la Messa domenicale è il grazie settimanale condiviso da ognuno per il dono della fede, dando valore alle cose della vita con il linguaggio della festa, del ritrovarsi insieme e del condividere: parole, silenzi, musiche, canti, vesti e segni; tutto concorre a esprimere quanto è più grande eppur avvolge[5]. Pregare, progettare, accompagnare ma anche…servire! Un vero educatore imita il Signore Gesù che si rese servo dell’umanità: è chiamato a servire nell’impegno di ogni giorno senza mai perdersi d’animo, né cedere alla tentazione dello scetticismo o della disperazione: la fatica del servizio è la fatica stessa di amare! Anche nel dialogo, l’educatore opera un servizio: il dialogo è linguaggio di amore manifestandosi come attenzione e disponibilità agli altri, gratuita e libera. Il dialogo come esperienza che libera ha bisogno, da parte dell’educatore e dell’educato, di gratuità ed accoglienza.

 

L’educatore ha una grande responsabilità da dover esercitare con leggerezza (non superficialità); deve tener ben presente che il cammino di fede non potrà mai, per il ragazzo, essere un percorso bello ed avvincente se il ragazzo non possiede personalmente la “gioia umana”. Essa dipende dalla propria storia di vita ma potrebbe scaturire anche dalla liberazione da quei comportamenti quasi comuni e normali (soprattutto in alcuni contesti sociali) di lamentele, amore possessivo e dominio, ingratitudine, pigrizia, calunnia, violenza verbale per mezzo dei social, violenza fisica e così via.

Chi educa deve saper “volare”, dovrebbe, non tanto essere perfetto, ma far leva e trarre entusiasmo dalla forza gioiosa che solo Dio può donare: “chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova!”[6]. Ecco che allora l’educatore potrebbe invitare a riflettere, testimoniare e poi proporre. L’educazione alla fede non può essere sintetizzata tramite schemi prefissati: il cammino prevedere costanti variabili perché ciascuno di noi è diverso così come è diversa la provenienza, la storia, la famiglia, il carattere …

Il vero educatore dovrà vincere le tappe dell’orgoglio altrimenti sciuperà per sé, e quindi per gli altri, quanto più di bello può esserci dell’esistenza umana; sia il giovane che l’adulto sarà chiamato a vigilare e verificare se stesso[7]. L’educatore alla fede sente nel proprio cuore di far conoscere quest’amore con la testimonianza della parola e della vita, attrarre ad esso, comunicarlo a volte anche con il silenzio di chi ne fa esperienza. Educarsi alla fede è un itinerario non solo possibile ma necessario: l’educatore deve “semplicemente” vivere amando ed amando vivere: le dottrine si spiegano, le persone si incontrano; le teorie si discutono, le persone si riconoscono e si ascoltano[8], per culminare nell’esperienza crescente di questo  Amore, che libera, educa, accompagna, arricchisce, chiarisce, realizza e salva.

[1] RdC 141.

[2] Lettera ai cercatori di Dio, CEI, 2009.

[3] RdC 38.

[4] “Non siamo eterni, non siamo onnipotenti: abbiamo bisogno di vita e di amore”, Lettera ai cercatori di Dio.

[5] Ibid.

[6] Spe salvi, Benedetto XVI, 2,  2007.

[7] Cfr. L’itinerario spirituale dei Dodici, C. M. Martini, 1981.

[8] Cfr. Lettera ai cercatori di Dio, 6.

don Bruno Giordano

GESÙ MAESTRO DI CARITÀ

di don Valerio Barbieri*

Uno degli appellativi di Gesù più frequenti nei vangeli è “maestro”. E un maestro in effetti era, tanto da avere dei discepoli. Essendo io un biblista, e non un pedagogista o un catecheta, mi limiterò a qualche spunto di riflessione a partire da un episodio evangelico legato alle celebrazioni pasquali, che ci può aiutare a conoscere meglio lo stile educativo di Gesù e, perché no, aiutarci a imitarlo, qualora avessimo anche noi nella Chiesa un ruolo educativo, magari anche semplicemente in quanto genitori.
L’episodio che ho scelto è la lavanda dei piedi. La sera dell’ultima cena con i suoi discepoli Gesù «quando ebbe lavato loro i piedi, riprese
le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo
sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”» (Gv 13,12-15).
Noi abbiamo capito quello che Gesù ha fatto per noi? Spesso si commenta questo gesto di Gesù mettendo in evidenza l’importanza di farsi
servi degli altri, essere disponibili ad un servizio. Tutto qui? Ora Gesù stesso, dopo quel gesto, dice di averci dato l’esempio e che ci dobbiamo
lavare i piedi gli uni gli altri. Certamente non è da interpretare alla lettera questa raccomandazione di Gesù. Nessuno infatti ci ha insegnato che dobbiamo lavare i piedi agli altri! E allora qual è l’esempio che ci ha dato? E come possiamo imitarlo?
Non dimentichiamoci che Giovanni ci riporta questo episodio nel contesto dell’ultima cena, in parallelo agli evangelisti che ci raccontano l’istituzione dell’Eucarestia. C’è un legame profondo tra questi due racconti, tanto è vero che noi li ascoltiamo entrambi nella liturgia del Giovedì Santo, giorno in cui cominciamo le celebrazioni pasquali. Non si può capire cosa intenda Gesù per esempio se non si coglie questo legame tra i due episodi e soprattutto con quello che avverrà di lì a poco: Gesù offrirà la sua vita per la salvezza del mondo. Ecco l’esempio! Ecco cosa intende dire Gesù con “fate questo in memoria di me”. Certamente significa “ripetete questi gesti”, ed è quello che facciamo celebrando la S. Messa, ma ci vuole anche dire “offrite anche voi la vita per me e per gli altri”.

Quanto ho tentato di esprimere in queste poche righe è ciò che dovrebbe contraddistinguere il servizio cristiano, ciò che rende il servizio
davvero carità! Per fare servizio nell’SVS piuttosto che alla Croce Rossa, etc… non c’è bisogno di essere cristiani… Quindi vuol dire che il servizio è per tutti… Noi invece vogliamo educare i nostri giovani non solo al servizio, ma alla carità, alla donazione totale di se stessi all’altro, sull’esempio di Gesù. Ritengo fondamentale che i ragazzi entrino in questa dimensione interiore, per evitare due errori: pensare che il servizio e la carità siano la stessa cosa; pensare che si possa esercitare la carità solo facendo un servizio, inteso come qualcosa di concreto da fare. Si può offrire la propria vita al Signore in tanti modi, anche con la sola preghiera! Pensiamo al momento che stiamo vivendo, chiusi in casa e impossibilitati a compiere molti servizi… Può essere un tempo di grazia per comprendere che in tanti nostri attivismi, in cui spesso coinvolgiamo anche i giovani, spesso la dimensione interiore è marginale, e non si sta educando alla carità.

Matrix ed i suoi simboli

di Luigi Cioni*

Non è purtroppo infrequente, passeggiando tra letture quotidiane, incontrare analisi di un mondo giovanile che appare sconcertato e spesso frastornato, che si concludono con un’accusa, spesso superficiale e di maniera, diretta verso le nuove tecnologie; “stanno sempre a guardare quel telefonino!”, “non riflettono più!”.

Ed io non voglio negare i pericoli che un abuso, non solo delle TIC, ma di ogni cosa comporta nella vita e nella psiche degli adolescenti (e non solo!). rifiuto invece categoricamente l’idea che a soluzione di questo problema si possano invocare la proibizione o addirittura il ricatto.

Come in ogni campo credo che alla base di un uso ragionato e perfino virtuoso degli strumenti e delle risorse che abbiamo a disposizione stia sempre e comunque l’educazione.

Sicuramente questo ci impegna tutti in un cammino molto difficile che perché vedo adulti sempre meno educati a questo scopo e quindi del tutto inadeguati al loro compito trasmissivo e valoriale.

Eppure modi per riuscire a far leggere a dei ragazzi la loro realtà, trovando direttamente in essa i criteri di interpretazione per una esistenza più autentica e consapevole esistono! Basta saperli leggere (ancora una volta).

Mi permetto di suggerire un solo esempio, di enorme successo di pubblico, quindi molto conosciuto, anche se non recentissimo. Spero che, proprio per questo motivo, abbia fatto almeno un po’ di scuola!

Mi riferisco al celebre film “Matrix”, nella sua prima opera (considero la II e III parte di questa saga un abuso di segnali e simboli senza un coerente piano complessivo che invece, secondo me era presente nel primo film).

Certamente moltissimi dei nostri giovani avranno visto questa pellicola come un film di azione senza ulteriori sollecitazioni, ma basta approfondire appena un po’ lo sguardo per notare altre piste di lettura che cerco di riassumere schematicamente.

 

Una pista di lettura pedagogica: “Svegliati Neo!”; con questa frase si apre praticamente la storia. È una chiamata al risveglio, a seguire indicazioni anche altrui che cercano di rispondere alle esigenze interiori del protagonista. Deve seguire un cammino, il “coniglio bianco” in una evidente ed esplicita citazione dei celeberrimi libri di Carroll, ma anche con una meno esplicita citazione di un filosofo contemporaneo, Lean Baudrillard, nel cui libro Neo nasconde del software illegale. Si tratta di un filosofo totalmente impegnato proprio su una riflessione educativa rispetto al posto dell’uomo in un mondo ormai “televisivo” e “spettacolare”. La tana del bianconiglio è il luogo dove Neo deve immergersi per trovare se stesso. Questo fino all’incontro con Morpheus, che rinnova la metafora e che poi lo conduce dall’oracolo. Anzi lo conduce fino alla soglia: “tocca a Neo decidere se la vuole attraversare”.

 

Una pista di lettura filosofica: alla base di tutto c’è sicuramente una filosofia di stampo neoplatonico: non solo i due livelli di realtà richiamano immediatamente alla memoria il famosissimo mito della caverna della Repubblica di Platone, ma anche l’uso simbolico del numero non ci permette di sottrarci a suggestioni, appunto neoplatoniche, in cui la prospettiva numerica richiama all’idea del progresso, dell’ascesi, della necessita di raggiungere l’Uno, il Bene.

Il nome stesso Neo è anagramma di “one” (colui che viene cercato, anche se nella versione italiana si è preferito indicare questo con il nome di “Eletto”). Uno dei compagni si chiama Switch (che richiama al due). La donna di cui si innamora si chiama Trinity (sic!), ed il suo nemico, traditore, si chiama Cypher, che oltre ad essere abbreviazione di  Lu-cypher, il demonio, indica anche la cifra, cioè lo zero immettendo in maniera immediata nella mente di tutti l’opposizione del codice binario 0-1 a cui si può ricondurre l’intero universo informatico.

 

Ed infine la pista di lettura religiosa che completa ed unifica tutte le altre:

non solo la nave di Morpheus si chiama Nabucodonosor, il re babilonese che ha distrutto Gerusalemme; non solo la città rifugio si chiama Zion (la Sion biblica), non solo la targa dell’auto dell’Agente Smith rimanda ad un versetto biblico, ma il quadro complessivo dell’opera tende a suggerire una visione dell’uomo in cui il rapporto con Dio non è eliminabile.

L’uno, che è l’atteso e l’eletto, si innamora del “tre”, deve salvare l’umanità e lo fa morendo e risorgendo, proprio per amore, lo fa risvegliando tutti alla propria dignità e alla vita vera, lo fa mostrando loro tutte le loro potenzialità non nel dominio e nella potenza, ma con l’esempio e la guida. In poche parole attraverso una immersione, che definirei una vera e propri chenosi, nella realtà umana più profonda, al fine di creare una umanità nuova.

 

I riferimenti cristologici si sprecano, l’azione e le avventure di Neo tengono lo spettatore legato allo schermo attraverso la visione di un mondo in cui la tecnologia mostra anche il suo volto più pericoloso.

Potremmo dire anche che l’intero film può essere visto come una invocazione alla resistenza. Sicuramente sì, ma una resistenza fatta dal di dentro, dall’interno di una umanità povera ed indecisa che rischia di perdere la propria vita e la propria autenticità e che la può ritrovare soltanto imparando ad usare ogni mezzo in maniera critica, anche strumentale al proprio fine. Certamente l’appello iniziale viene rivolto anche a tutti gli spettatori: “Svegliatevi!”

Lentius, suavius, profundius

di Luigi Cioni

Ma la smetti di guardarti allo specchio!? Non pensi ad altro?

Se tu usassi il tempo che perdi per curare il tuo aspetto esteriore per studiare, saresti un genio a scuola!

La finite di giudicarmi per quello che mi metto, per il mio piercing, per il mio tatuaggio!

Ritornelli nella nostra vita di adulti, accuse velate ed esplicite sempre più frequenti, scontri e giudizi sempre più aperti tra giovani e quelli che una volta si definivano i “matusa”.

Quelli della mia età ricorderanno una canzone che trasudava ingenuità e rivolta al tempo stesso, di un gruppo allora emergente e che adesso definiremmo storico, come quello dei Nomadi: “Come potete giudicar?”

“Tutta immagine e nessuna sostanza!” si dice da una parte; “ci guardate sempre con la misura del giudizio senza sapere nulla di noi!” si dice dall’altra.

E con queste, o simili, frasi sigilliamo a mo’ di epitaffio una pietra tombale sempre più pesante su ogni speranza che il mondo adulto, dopo che ha sottratto alla gioventù odierna tutti i più bei sogni ed utopie, smetta di considerarla un problema e cominci finalmente a guardare ad essa per ciò che veramente è, e cioè una risorsa.

Come adulti e come chiesa dobbiamo dirci con sincerità che non sono i giovani che hanno bisogno di noi, ma che siamo noi ad aver bisogno di loro, ma, per giustificare il fatto che ci stiamo appropriando della loro ricchezza, non troviamo nulla di meglio da fare che criticarli togliendo, allo stesso tempo, tutta quella autostima che renderebbe loro una speranza e una vita con maggior profumo di autenticità.

Cominciamo noi, togliendo dal nostro vocabolario le frasi fatte, i concetti abusati, i luoghi comuni del pensare e diciamo con franchezza: “certo che i giovani danno importanza alla loro esteriorità! In un mondo in cui lo sport nazionale è il giudizio impietoso, perché non dovrebbero curare ciò per cui inevitabilmente verranno inquadrati e misurati? Cioè la loro immagine pubblica?

È inevitabile: il presentarsi sulla scena del mondo, fornisce i simboli primordiali della comunicazione all’esterno di sé. Ed in questa società, che non è certamente propensa all’approfondimento, ad una evoluzione di pensiero, ad una dinamica di ripensamento o di conversione “la prima impressione è quella che conta!” e diventa determinante!

Che cosa sto cercando di sostenere? Che sono favorevole ad una vita tutta estetica ed esteriorità? Che i nostri giovani non debbano curare la loro spiritualità perché tanto nessuno la prenderà in considerazione? Che questa relazionalità effimera sarà, adesso e sempre, la modalità con cui dovranno confrontarsi e a cui, quindi, dovranno essere preparati?

Certamente ed inequivocabilmente NO!

Vorrei solamente andare oltre il luogo comune e cercare di affrontare la questione nella sua complessità.

Se (primo passo) la nostra dimensione simbolica è l’inevitabile linguaggio con cui ci presentiamo al mondo;

se (secondo passo) noi tutti ormai sappiamo che la “verità” sta nel rapporto tra un soggetto ed un oggetto e non è quindi solamente una proiezione dell’io, ma una relazionalità in cui la dimensione esteriore riveste un ruolo fondamentale;

se (terzo passo) non cominciamo a diffondere modalità di accesso al proprio io, un io fatto di dialogo, di rivelazioni, di profondità, allora…

non possiamo meravigliarci se in chi più si sente sottoposto al giudizio, in chi soffre preliminarmente di cedimenti nell’autostima, che non ha ancora preso autentica coscienza di sé, tutto si esaurisca nella pura e semplice esteriorità.

Affermato questo che costituisce una difesa, non d’ufficio, del mondo giovanile (che peraltro non mi pare che ne abbia particolare bisogno, dato che continua a vivere per la sua strada, incurante delle critiche e sempre più manovrato da chi sfrutta e gode delle sue carenze), ma che vuole soprattutto essere una presa di coscienza che mi appare indispensabile, facciamoci una domanda:

come proporre a noi tutti una maggiore attenzione alla dimensione spirituale ed interiore?

Ovviamente questo comporterebbe una rinascita della dimensione educativa, proprio quella che gli adulti di oggi hanno abbandonato, ma soprattutto un itinerario di conversione che convinca invece i giovani della assoluta necessità del rivolgersi dentro, alla ricerca del più vero, del più buono, del più bello.

Di quelle realtà che non scompaiono con gli anni, di quella responsabilità verso gli altri di cui spesso non sono stati oggetto, di quella libertà dal giudizio, dalle consuetudini, dalle voglie e dagli istinti che così ampiamente dominano.

La eliminazione del “tutto e subito” e la consapevolezza della necessità del tempo, dell’acquisizione graduale, della necessità che questo spesso vada oltre la soddisfazione e anche la consolazione spirituale, perché la responsabilità e il dono sono affari seri e difficili.

Cominciare col togliere alla nostra quotidianità la dimensione della competizione, la dimensione della forza e del machismo esistenziale, dell’”uomo che non deve chiedere mai”! Certo che dobbiamo chiedere, manifestando i nostri bisogni, i nostri limiti. Per questo ho intitolato questo breve intervento con l’adagio, se vogliamo anti-sportivo, di Alex Langer.

Una canzone del mio tempo mi sorge alla coscienza: Ahi Velasquez di Roberto Vecchioni.

Un testo che evocava la stanchezza e la sofferenza, ma anche la consapevolezza della necessità (se vogliamo anche egoistica) dell’impegno e della cura per l’altro, una musicalità che si ritmava con le onde di un mare in tempesta, una chitarra che struggente conduceva per mano l’ascoltatore al dubbio e alle certezze.

Come tutti i vecchi sto correndo il rischio di affermare: “Ai miei tempi…” c’erano anche di queste canzoni, si pensavano queste cose, si credeva in questi valori…

Non voglio cedere a questa tentazione, vorrei solo anche io diventare capace, di fronte ai giovani che frequento, “come siete belli! Adesso cerchiamo tutti, io e voi, di diventare sempre più interessanti e importanti l’uno per l’altro!

Come già detto; sono io ad averne bisogno!

Noi siamo infinito

9788873396819_0_0_2132_opt*a cura di Luigi Cioni* Nel 1999 è stato pubblicato un romanzo che ai tempi appariva destinato ad un pubblico giovanile e distratto, pronto ad assumere solo le dimensioni emozionali del racconto e capace solo di rinverdire i pruriti dell’adolescenza.
Alla prova dei fatti la storia di questa narrazione è stata diversa pur senza tradire le promesse pregresse. Il romanzo si intitolava “Ragazzo da parete”, autore Stephen Chbosky. Dal romanzo l’autore stesso ha tratto prima una sceneggiatura e poi un film, a cui in Italia è stato dato il titolo “Noi siamo infinito”;  con questo stesso titolo poi il
romanzo è stato ripubblicato perdendo tutte le suggestioni originarie. Il “ragazzo da parete” suggerisce infatti due ipotesi contrastanti: da una parte quella descritta esplicitamente nel libro: la tappezzeria. Un ragazzo che fa tappezzeria è una persona che appare insignificante, che non aggiunge nulla alla serata con gli amici; è utile solo per decorazione. D’altro canto però, sulla parete si appendono anche i quadri, un qualcosa di particolarmente bello da mostrare, che certamente decorano, ma impreziosiscono anche la casa, la rendono bella, per certi versi le conferiscono la sua specificità. Ecco, Charlie, il protagonista è tutto questo; apparentemente solo tappezzeria remissiva, ma nasconde, nelle pieghe del tessuto, preziosità insospettabili. Capace di sentimenti alti, di sofferenze
indicibili (quelle tipiche dell’adolescenza), a cui rischia anche di soccombere, anche a causa di un’esperienza rimossa
di violenza familiare.

Noi siamo infinito, non perché ciascuno di noi sia capace di superare sempre i nostri limiti, ma perché siamo più di noi stessi, siamo essere-per, siamo essere con; un’immagine di un Dio che ci ha chiesti di diventare sempre più a Lui somiglianti. A Lui, non un Dio uno, ma un Dio comunità di amore.
Noi siamo infinito,
non perché ciascuno
di noi sia capace di
superare sempre i nostri
limiti, ma perché siamo
più di noi stessi, siamo
essere-per, siamo essere
con; un’immagine di un
Dio che ci ha chiesti di
diventare sempre più a
Lui somiglianti. A Lui,
non un Dio uno, ma un
Dio comunità di amore.

In realtà vive in una famiglia piena di affetto, nella luce riflessa di un fratello maggiore, grande sportivo, vivendo una religione tradizionale molto presente, non formale, sentita anche autenticamente dai figli stessi, ma praticata
con delle libertà tipiche di questo mondo incoerente. Entra in gruppo di amici, più grandi, anche loro problematici
e per certi versi ai margini; si innamora perdutamente, e senza mai osare confessarlo nemmeno a se stesso fino alla fine, di una ragazza più grande a cui si accontenta di “dare ripetizioni“ di matematica aiutandola ad entrare al college, ma facendole trovare fiducia in se stessa; frequenta il fratellastro di lei, omosessuale che accoglie con sincera amicizia schierandosi dalla sua parte anche nelle difficoltà tipiche del razzismo attuale; vive con sincera partecipazione le lezioni del professore di letteratura da cui spera di imparare tutto, volendo diventare a sua volta uno scrittore. Un mondo complesso, fatto di bellezza e sofferenza, di amicizia e tradimenti, in cui sembra che solo i protagonisti (o pochi altri) sappiano vivere sentimenti autentici, mentre tutti intorno sopravvivono nella mediocrità
della accettazione rituale dei propri ruoli e delle proprie maschere. Tutto il film oscilla come un pendolo tra due frasi (una pronunciata due volte all’interno della storia): “Noi tutti accettiamo l’amore che pensiamo di meritare” e l’altra, posta alla fine del film e che ne costituisce apparentemente il messaggio fondamentale: “Qui, adesso questo
sta succedendo. Io sono qui e sto guardando lei, ed è bellissima!

Ora lo vedo, il momento in cui sai di non essere una storia triste… E senti quella canzone, su quella strada, con quelle persone a cui vuoi più bene al mondo. E in questo momento, te lo giuro, noi siamo infinito!” Due frasi che mi piace analizzare dal punto di vista quasi esclusivamente grammaticale: sono due frasi che non banalmente si presentano con un soggetto plurale, il NOI che accomuna in un certo senso, se non l’intero genere umano, almeno una  Generazione, sempre piena di difficoltà come l’adolescenza, ma che in questo momento storico soffre particolarmente di mancanza di maestri, di mancanza del desiderio di avere maestri, di mancanza di prospettive e di mancanza del desiderio di avere prospettive. Abbiamo già analizzato su queste pagine come l’esclusivo  The-Perks-of-Being-a-W_optautocentramento sull’io non porti ad una crescita equilibrata, abbiamo già visto come solo la dimensione della relazione ci renda capaci di andare oltre la somma degli individui, per la fondazione di un NOI autentico. Abbiamo
già compreso come solo la relazione con l’altro ci renda capaci di un autentico superamento del sé autarchico e narcisistico; in una parola ci renda capaci di trascendenza, di accogliere ciò che ci viene come dono e desiderosi
di restituzione di un dono autentico come solo la persona autentica ed integrale può essere.

Noi accettiamo l’amore che pensiamo di meritare, generalmente molto meno di quello a cui ciascuno di noi avrebbe diritto, perché guardiamo solo al nostro essere e non al mondo che vive all’interno della vita degli altri.

IL SENSO DEL NOI
In questa epoca storica dove mancano maestri e prospettive, la dimensione relazionale diventa la strada da seguire per salvarsi. Uscire dall’individualismo alla riscoperta delle relazioni e aprirsi agli altri è il filo che può condurre
anche a dio.

Di nuovo amici

90dfe3b13b57422f828aa7_opt*di Luigi Cioni*
Dopo la nostra lunga riflessione sul peccato, non potevamo esimerci dal porre l’accento, come logica ed inevitabile conclusione, sul tema della riconciliazione e del perdono. E, come al solito, cerchiamo anche su questo tema di non porre la questione di principio: occorre trovare modalità di perdono, accostarci al sacramento della confessione, ricorrere alla Misericordia del Signore, ecc. No, nessuno si accosterà mai al sacramento della riconciliazione
finché non avrà compiuto almeno due passi inprescindibili:
Da una parte rendersi conto che quello che ho commesso è un errore, e non solo perché qualcuno dice che va contro a dei precetti stabiliti da chissà chi, ma perché capisco che questo va contro il bene mio e di chi mi sta accanto; compie un oggettivo male, fa accadere qualcosa che lede la dignità di chi ne è offeso e anche di me che l’ho commessa; dall’altra comprendere chi è colui che può liberarmi da questo stesso male; non un entità
sovraterrena con cui non ho a che fare per nove decimi (essendo ottimisti) della mia giornata e al cui giudizio mi sottopongo (anzi a quello del prete!!) solo per tradizione annuale quando arrivano le grandi festività.

Interessante sul tema del perdono anche una riflessione sul Film Mission di Joffè Il mercante di schiavi (Robert De Niro) è costretto a portare come penitenza una soma che contiene tutte le armi della sua vita (deve portarsi dietro il peso del suo passata) e affrontare un lungo cammino. Ad un certo punto uno dei suoi compagni lo libera e lui torna indietro a riprendere di nuovo la fonte della sua oppressione (dal suo passato non è ancora libero) non è lui che può perdonarlo, ma solo coloro a cui ha fatto veramente del male
Interessante sul tema
del perdono anche una
riflessione sul Film
Mission di Joffè
Il mercante di schiavi
(Robert De Niro) è
costretto a portare come
penitenza una soma che
contiene tutte le armi della
sua vita (deve portarsi
dietro il peso del suo
passata) e affrontare un
lungo cammino. Ad un
certo punto uno dei suoi
compagni lo libera e lui
torna indietro a riprendere
di nuovo la fonte della
sua oppressione (dal suo
passato non è ancora
libero) non è lui che può
perdonarlo, ma solo coloro
a cui ha fatto veramente
del male

Dopo un anno intero di Giubileo della Misericordia forse alcune le mie considerazioni risulteranno scontate; ma vale sempre la pena di ricordarcele.
Parto ancora una volta da una storia biblica che noi tutti conosciamo: quella del Figliol prodigo (Lc 15) o meglio “del Padre misericordioso”. Tutti poniamo l’accento sul figlio minore che va a sperperare il patrimonio paterno e non mettiamo mai l’accento sul figlio maggiore che non mostra nessuna gioia per il ritorno del peccatore. Certamente nessuno affronta volentieri un giudizio inesorabile e duro (mi verrebbe
da dire fondamentalista) come quello. Forse se avessimo di fronte un Padre come quello della parabola, tutti avremmo più gioia al pensiero della riconciliazione. Eppure ciò che Gesù ci annuncia di Dio è proprio questo: Dio è come il Padre del Figliol prodigo (e sempre nello stesso
capitolo, il pastore che cerca una pecora perduta, una vecchietta
che mette a soqquadro la casa per trovare una monetina dispersa,
ecc). Allora forse sarebbe il caso di non parlare esclusivamente
di “penitenza”, di contrizione, di pentimento (tutte cose certamente necessarie) ma porre soprattutto l’accento sull’amore.
Tuo padre e tua madre ti amano! Non ne sei felice? La tua ragazza ti ama! Puoi pensare ad un miracolo più grande di questo? Dio ti ama! Pensi davvero che dopo aver fatto questa scelta dall’eternità metta tuttoin questione per un tuo stupido sbaglio?
Hai capito che quello che hai fatto ha rotto dei rapporti? Ha incrinato delle relazioni? Hai capito che non era degno di te il modo in cui ti sei comportato? Hai finalmente compreso che nell’aderire a quel comportamento hai fatto una scelta che non ti ha dato gioia e serenità,
ma hai semplicemente creduto di poter diventare più grande a scapito di altri? Più ricco creando la povertà altrui? Più perfetto e compiuto togliendo completezza e perfezione a quell’ambiente in cui non hai più trovato (e per colpa tua) quelle situazioni che ti potevano completare
veramente? Allora vai! Vai da quella persona che forse ti può comprendere e ti può mostrare l’amore di Dio, ti può indicare il giusto cammino, ti può far ritrovare la gioia della relazione, indicare il percorso del risanamento, ristabilire la giusta posizione delle cose, nella tua storia e nel tuo spirito. Certo è il tuo sacerdote, ma può anche non essere il tuo; e può non essere nemmeno un sacerdote, ma quella persona che ti fa sperimentare la gioia  del giusto cammino e che poi dal sacerdote ti manda perchè tu possa arrivare davvero all’amore di Dio. Non hai vicino a te una persona così? Cercala! Scandaglia tutti i tuoi gruppi, le tue conoscenze, chiedi, investiga, implora aiuto, ma trovala!
Non ne puoi fare a meno, perchè sicuramente nella tua vita sbaglierai, commetterai errori, infrangerai delle relazioni e dei cuori e, solo nel cuore di Dio troverai un amore così grande che renderà capace te, e tutte le persone che avrai offeso, di superare ogni ostacolo, di aprire le braccia e dirti: Benvenuto! Non aspettavo altro che te! Nessuno
altro posto è bello come questo: tra le mie braccia.

IL TEMA DEL PERDONO
Certamente il tema del perdono deve essere affrontato anche da un altro punto di vista: “Quanto e come perdonare?” La risposta di Gesù è nota e può essere annoverata tra le poche sue parole conosciute da tutti “fino a settanta volte sette” (che cosa voglia dire poi è tutto da comprendere). Rimandiamo però la trattazione di questo aspetto ad un’altra occasione. Nel frattempo solo un piccolo suggerimento che può venire da un libro che di questo argomento ha fatto tema specifico e in un momento storico altamente significativo: “si possono perdonare i tedeschi dopo la Shoah? Leggiamo Simon Wiesenthal Il girasole, Ed. Garzanti