TI VOGLIO INCONTRARE

*di don Simone Barbieri

COME PIETRO, COME PAOLO…
SUL LAGO DI GALILEA, SULLA VIA DI DAMASCO

Come Pietro, come Paolo
Due dei tanti personaggi che nel Nuovo Testamento hanno incontrato Gesù. Pietro ha conosciuto Gesù anche durante la sua vita terrena, ma ciò che li accomuna è l’aver incontrato il Cristo Risorto, come ci testimonia lo stesso Paolo: «apparve a Cefa… ultimo fra tutti apparve anche a me» (1Cor 15,5.8). I testimoni della resurrezione hanno sicuramente avuto un dono grande. Talvolta i ragazzi si domandano perché Gesù non ci appaia a noi risorto come apparve a Pietro, Paolo e tante altre persone. Sarebbe più facile credere. La sfida sta nel far comprendere loro che Cristo, seppur in modalità diverse, lo si può davvero incontrare anche oggi. Non ci apparirà risorto, nel senso che non lo percepiremo con i cinque sensi, ma possiamo avvertire la sua presenza con i sensi spirituali. Noi adulti sappiamo bene cosa voglia dire incontrare Cristo, ma non riusciamo a spiegarlo ai più giovani, perché non è spiegabile: è un’esperienza interiore così particolare, unica e bella che non ci sono le parole per descriverla. L’unica prova indiretta di questo incontro che possiamo e dobbiamo offrire ai ragazzi è la
nostra testimonianza di vita. Un adulto, un educatore che ha incontrato il Risorto lo si riconosce. La stessa testimonianza degli apostoli è la prova indiretta più importante della Resurrezione: pur di non negare di aver visto il Risorto hanno preferito morire.
Sul lago di Galilea, sulla via di Damasco La testimonianza dell’adulto, quella in particolare dell’educatore, non è però sufficiente a suscitare la fede nei giovanissimi. Sicuramente ne rimangono incuriositi e si rendono più disponibili ad una ricerca, ma è indispensabile che facciano esperienza diretta del Signore. In qualche momento e in qualche luogo preciso, così come fecero Pietro sul Lago di Galilea, Paolo sulla via di Damasco e tutti gli altri. Così come abbiamo fatto noi adulti.

Quali sono i luoghi in cui si può incontrare il Signore? Direi essenzialmente tre: la liturgia e l’adorazione eucaristica; l’ascolto della Parola di Dio; il servizio. La liturgia è il momento solenne in cui cielo e terra si congiungono e noi possiamo pregustare la bellezza della vita eterna. Una liturgia ben curata, senza troppi orpelli, che faccia percepire il sacro può essere davvero il luogo dell’incontro col Risorto. Così come l’adorazione eucaristica, che della liturgia è un’appendice: non manchino mai per i giovani momenti di adorazione, soprattutto nei campi estivi ed invernali e in particolari occasioni come i ritiri. La Parola di Dio, se letta e pregata con fede, è un altro luogo in cui Dio ci parla e parla al cuore dei giovani. Importante offrire dei momenti di meditazione delle Sacre Scritture agli adolescenti, durante i quali insegnare loro come ci si mette in un atteggiamento di ascolto, perché arrivino magari alla meditazione quotidiana del vangelo del giorno. Infine il servizio. Questo aspetto credo che sia il più carente nelle nostre comunità parrocchiali. Si fa fatica a trovare servizi per i giovanissimi che non siano l’aiuto-catechista. Qualsiasi tipo di servizio ci pone in un atteggiamento di attenzione verso coloro che serviamo e ci fa sperimentare che c’è più gioia nel dare che nel ricevere. Ci dà quindi l’opportunità di sentirsi vicini al Signore che ha donato la sua vita per noi.

L’URLO DI MUNCH E L’ANCORA DEI PRIMI CRISTIANI

*di mons. Simone Giusti

Il quadro “L’urlo” di Edvard Munch, venne esposto per la prima volta nel 1902, inserito in un ciclo di sei tele che non a caso s’intitolava Studio per una serie evocativa chiamata Amore.
Dirà l’autore: Ho sentito la natura che gridava e ho dipinto questo quadro e le nubi con vero sangue. I colori gridavano. Nel suo diario, Munch descrive la situazione che diede origine a quell’immagine: Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò – il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. – Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata – Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco – I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura – e sentii un urlo infinito pervadere la natura. Poi ho dipinto questo quadro. Ho dipinto le nubi con vero sangue. I colori gridavano. Una scena che evoca l’angoscia del Golgota e le parole di Cristo rivolte al Padre. Come si può vivere?
Come è possibile “affrontare il nostro presente”, spesso segnato dallo smarrimento e dal dolore? Come sopportare ogni giorno la fatica del vivere? In effetti noi udiremo il grido solo se in articolazione con la necessità di amore che ci abita fino alla fine. Ora, se quel quadro è divenuto così emblematico, è perché va al di là della rappresentazione del mero terrore individuale. In verità schiude a tutti noi, illuminandolo, il senso tragico dell’esistenza. In quell’immagine sono condensati tutti gli urli umani, quelli emessi così come quelli soffocati. Schopenauer individuava il limite delle possibilità espressive dell’arte esattamente nella sua incapacità di far udire il grido. È appunto il contrario che Edvard Munch s’impegna a dimostrare. In qualunque campo ci muoviamo, è fondamentale preservare la possibilità di ascoltare il grido, il nostro stesso grido e quello altrui (l’uno e l’altro così difficili da accogliere). Pensiamo al bambino. Quando si sente abbandonato nel buio della notte non gli rimane che il grido. La vita inizia con l’essere sperimentata come un caos, per il quale non esistono nomi possibili. Ha una percezione confusa del suo proprio corpo. Ha perduto il calore della placenta che lo proteggeva nello stadio intrauterino e in questo momento è separato dall’abbraccio materno. Si sente gettato fuori, esposto alla vita che non sa controllare. Allora grida. Piange. Un’esperienza primordiale che ritornerà in altri momenti della nostra esistenza.

Pensiamo al bambino. Quando si sente abbandonato nel buio della notte non gli rimane che il grido. E il grido è la forma fragile e intensa con cui la sua vita parte alla ricerca di altre vite che possano soccorrerla. Il grido è un appello, una supplica, una richiesta, una sorta di preghiera: le corde della voce partono, nel cuore della notte, in cerca di un attracco. Nei Vangeli, per esempio, si dice che Gesù morì emettendo un duplice grido. Il primo, liberando le parole: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (oppure «Dio mio, Dio mio, a cosa mi hai abbandonato?», come preferiscono alcune traduzioni). Ma, una volta proferite tutte le parole sulla croce, gli evangelisti Marco e Matteo raccontano che Gesù dà un altro forte grido. E in quello stesso momento il velo del tempio
si squarciò in due, consentendo un altro regime di rivelazione.1
La fede nella risurrezione di Gesù – non la rianimazione del suo cadavere, ma l’ingresso della sua stessa condizione umana nel mondo delle cose invisibili che forma il valore aggiunto della creazione di Dio – trafigge la mente dell’umanità intera: nessuno aveva mai osato lanciare un simile annuncio dell’importanza della vita che viviamo, nella carne e nel sangue. Questa speranza ci accompagna nella vita. I primi cristiani dipingevano la speranza con un’ancora, come se la vita fosse l’ancora gettata nella riva del Cielo e tutti noi incamminati verso quella riva, aggrappati alla corda dell’ancora. E’ una bella immagine della speranza: avere il cuore ancorato là dove sono i Santi, dove è Gesù, dove è Dio. Questa è la speranza che non delude. La speranza è un po’ come il lievito, che ti fa allargare l’anima; ci sono momenti difficili nella
vita ma con la speranza, l’anima va avanti e guarda a ciò che ci aspetta. «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso» (1Gv 3,3). Anche la speranza ci purifica, ci alleggerisce; questa purificazione nella speranza in Gesù Cristo ci fa andare in fretta, prontamente.

Il tempo delle scelte l’importanza educativa e sociale dell’oratorio oggi

*di Monica Calvaruso*

L’oratorio non è solo un luogo, un cortile, una struttura in cui si svolgono varie attività, oggi è diventato un progetto educativo che comprende la catechesi, la preghiera, il doposcuola, lo sport, il gioco, la formazione, i laboratori, le attività musicali, il teatro, il grest: è una realtà ecclesiale luogo di incontro e crescita umana e spirituale. L’oratorio è evoluto ed è  uno strumento pastorale e vivo dell’educazione, che, come afferma don Michele Falabretti direttore nazionale della Pastorale Giovanile, è medicina della Chiesa, esercizio di cura e di comunità: diviene la cosa più bella del mondo se  ben progettato, se la comunità è presente e se gli animatori sono formati adeguatamente. L’ oratorio non è improvvisazione e neppure un modo di fare baby sitter, è un’unica grande azione in cui tutto si sviluppa e cresce, in cui si impara ad essere bravi cristiani e bravi cittadini. L’oratorio è una realtà in continua evoluzione, che va incontro ai giovani in modo dinamico, energetico, che riesce a costruire i legami tra educatore ed animatore, tra animatore e ragazzo in un “mondo” senza spazio e senza tempo. E’ luogo e mezzo di incontro con Gesù. Il ragazzo che frequenta l’oratorio cerca aggregazione e ha bisogno di essere ascoltato, di calore e umanità,  di riconoscersi in un gruppo e diventare un protagonista per i più piccoli, che, raccogliendo la testimonianza, desiderano emularla da grandi. E’ così che nasce la relazione solida e l’accompagnamento spirituale dei giovani che possono essere seguiti da sacerdoti, religiosi, religiose e laici educatori nel periodo delle domande e delle scelte,  in un cammino di conoscenza del proprio progetto di vita. L’oratorio ha questa funzione educativa quando la progettazione diventa un passaggio essenziale dall’educatore all’educato, quando c’è uno studio del territorio, una lettura dei bisogni, quando si pongono obiettivi e dei percorsi da raggiungere insieme, sia come comunità che nel singolo. Queste le tre competenze fondamentali per il progetto educativo: dosare le energie, allenare la riflessività e la verifica. La progettazione educativa è un vero e proprio esercizio di discernimento che ha degli effetti: in oratorio la Chiesa si reinventa; si incontra la realtà; la comunità cresce; si coinvolgono diversi carismi; si tiene accesa e viva la luce della memoria di Gesù nell’ascolto dello Spirito; si assume lo stile dell’animazione parlando il linguaggio dei giovani; avviene l’iniziazione umana alla vita. Oggi l’oratorio ha acquisito una funzione sociale perché le famiglie, prese da una vita frenetica lavorativa, hanno  bisogno di affidare i propri figli a persone sicure, in luoghi tranquilli e più economici   dei vari centri estivi. La domanda educativa e sociale è alta e l’offerta deve essere elevata: piccoli oratori stanno nascendo in molte parrocchie proprio per rispondere a queste necessità, non bisogna cadere nella superficialità e nella fretta. Serve pazienza, serietà e professionalità nelle  parrocchie che sono, quindi, soggetti promotori di programmi e di interventi in aiuto alle famiglie per la diffusione della cultura, dello sport, del divertimento, ma soprattutto della fede. Non dobbiamo dimenticare:  il Vangelo deve essere sempre sorgente e fine di ogni attività oratoriale!

Le caratteristiche dell’educatore alla fede: alcuni tratti fondamentali

Il tempo presente nel quale ciascuno di noi oggi vive è spesso simile al tempo passato: esso contiene una molteplicità di sfide, possibilità, errori, vocazioni etc…  Sarebbe errato pensare al passato come un tempo “perfetto”, un tempo che -in modo nostalgico- non verrà più! Proprio in questo tempo però, vengono sempre più a delinearsi le abilità necessarie per i compiti-vocazioni-missioni ecclesiali, da vivere nella ferialità.

Purtroppo, col passar del tempo, la missione dell’educazione alla fede non solo è passata in secondo piano ma è stata relegata ai soli preti, ai religiosi o a piccoli gruppi; questa missione tanto bella quanto impegnativa è  invece di ogni battezzato, ed è rivolta a tutti gli uomini e non solo quelli che vivono in famiglia ed in parrocchia[1].

Ma è possibile educare o educarsi alla fede, se la fede è un dono? Educare: condurre -chi abbiamo di fronte- fuori ed aiutarlo a “tirare fuori” il meglio di sé ed ascoltare la voce di Dio nella Scrittura.  Ecco che appare evidente che l’educatore non può attrarre a sé (al di là dell’iniziale simpatia/empatia necessarie per una sana educazione) ma deve, con delicatezza ed abilità, condurre fuori  da sé, fuori dall’altro, verso Cristo.

L’educatore è innanzitutto un ragazzo che prega, ascolta ed ama[2] con perseveranza, coraggio e disponibilità.

E’ possibile educare alla fede solo chi ha scoperto di appartenere a Cristo[3], anche se può capitare, non di rado, che chi si ha di fronte non sappia tradurre in parole o non sappia vedere chiaro la presenza del buon Dio. L’educatore quindi non deve abbattersi: l’intuizione del cuore è già una buona strada. Il cammino della vita di fede è un cammino coinvolgente: l’educatore deve essere in grado, cosa che accade anche grazie alla paziente esperienza, di porre -non risposte preconfezionate- ma quesiti riguardo alla vita sia generale che personale[4]. Bisogna ricordare: avere dubbi significa non significa non avere fede! Se abbiamo dubbi Dio ci ama più ugualmente. Si evince che l’educatore deve conoscere, fin dove possibile anche attraverso esperienze personali e comunitarie, la vita del ragazzo.

Essere educatore (e non soltanto farlo) significa andare alla ricerca di Dio ma non senza prendere una decisione o senza fare tagli dal proprio e piccolo universo. Proprio chi educa deve per primo lasciarsi guidare, dare un senso alla propria vita, ricercando la giustizia più grande per tutti, testimoniando l’amore perfino nelle situazioni di incomprensione più difficili e tristi. Forte dell’esperienza personale, del Signore Gesù che “scende” sulle ferite per trasformarle in occasioni di bellezza, l’educatore può testimoniare in azioni concrete questa relazione: la gioia, la comunità, l’umiltà, l’adorazione ed il dono di sé.

Proprio chi sceglie liberamente di educare che deve abituarsi a pensare, progettare e vivere esperienze concrete per far giungere all’incontro pieno con Dio. Sempre l’educatore è consapevole che la Messa domenicale è il grazie settimanale condiviso da ognuno per il dono della fede, dando valore alle cose della vita con il linguaggio della festa, del ritrovarsi insieme e del condividere: parole, silenzi, musiche, canti, vesti e segni; tutto concorre a esprimere quanto è più grande eppur avvolge[5]. Pregare, progettare, accompagnare ma anche…servire! Un vero educatore imita il Signore Gesù che si rese servo dell’umanità: è chiamato a servire nell’impegno di ogni giorno senza mai perdersi d’animo, né cedere alla tentazione dello scetticismo o della disperazione: la fatica del servizio è la fatica stessa di amare! Anche nel dialogo, l’educatore opera un servizio: il dialogo è linguaggio di amore manifestandosi come attenzione e disponibilità agli altri, gratuita e libera. Il dialogo come esperienza che libera ha bisogno, da parte dell’educatore e dell’educato, di gratuità ed accoglienza.

 

L’educatore ha una grande responsabilità da dover esercitare con leggerezza (non superficialità); deve tener ben presente che il cammino di fede non potrà mai, per il ragazzo, essere un percorso bello ed avvincente se il ragazzo non possiede personalmente la “gioia umana”. Essa dipende dalla propria storia di vita ma potrebbe scaturire anche dalla liberazione da quei comportamenti quasi comuni e normali (soprattutto in alcuni contesti sociali) di lamentele, amore possessivo e dominio, ingratitudine, pigrizia, calunnia, violenza verbale per mezzo dei social, violenza fisica e così via.

Chi educa deve saper “volare”, dovrebbe, non tanto essere perfetto, ma far leva e trarre entusiasmo dalla forza gioiosa che solo Dio può donare: “chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova!”[6]. Ecco che allora l’educatore potrebbe invitare a riflettere, testimoniare e poi proporre. L’educazione alla fede non può essere sintetizzata tramite schemi prefissati: il cammino prevedere costanti variabili perché ciascuno di noi è diverso così come è diversa la provenienza, la storia, la famiglia, il carattere …

Il vero educatore dovrà vincere le tappe dell’orgoglio altrimenti sciuperà per sé, e quindi per gli altri, quanto più di bello può esserci dell’esistenza umana; sia il giovane che l’adulto sarà chiamato a vigilare e verificare se stesso[7]. L’educatore alla fede sente nel proprio cuore di far conoscere quest’amore con la testimonianza della parola e della vita, attrarre ad esso, comunicarlo a volte anche con il silenzio di chi ne fa esperienza. Educarsi alla fede è un itinerario non solo possibile ma necessario: l’educatore deve “semplicemente” vivere amando ed amando vivere: le dottrine si spiegano, le persone si incontrano; le teorie si discutono, le persone si riconoscono e si ascoltano[8], per culminare nell’esperienza crescente di questo  Amore, che libera, educa, accompagna, arricchisce, chiarisce, realizza e salva.

[1] RdC 141.

[2] Lettera ai cercatori di Dio, CEI, 2009.

[3] RdC 38.

[4] “Non siamo eterni, non siamo onnipotenti: abbiamo bisogno di vita e di amore”, Lettera ai cercatori di Dio.

[5] Ibid.

[6] Spe salvi, Benedetto XVI, 2,  2007.

[7] Cfr. L’itinerario spirituale dei Dodici, C. M. Martini, 1981.

[8] Cfr. Lettera ai cercatori di Dio, 6.

don Bruno Giordano

Noi siamo infinito

9788873396819_0_0_2132_opt*a cura di Luigi Cioni* Nel 1999 è stato pubblicato un romanzo che ai tempi appariva destinato ad un pubblico giovanile e distratto, pronto ad assumere solo le dimensioni emozionali del racconto e capace solo di rinverdire i pruriti dell’adolescenza.
Alla prova dei fatti la storia di questa narrazione è stata diversa pur senza tradire le promesse pregresse. Il romanzo si intitolava “Ragazzo da parete”, autore Stephen Chbosky. Dal romanzo l’autore stesso ha tratto prima una sceneggiatura e poi un film, a cui in Italia è stato dato il titolo “Noi siamo infinito”;  con questo stesso titolo poi il
romanzo è stato ripubblicato perdendo tutte le suggestioni originarie. Il “ragazzo da parete” suggerisce infatti due ipotesi contrastanti: da una parte quella descritta esplicitamente nel libro: la tappezzeria. Un ragazzo che fa tappezzeria è una persona che appare insignificante, che non aggiunge nulla alla serata con gli amici; è utile solo per decorazione. D’altro canto però, sulla parete si appendono anche i quadri, un qualcosa di particolarmente bello da mostrare, che certamente decorano, ma impreziosiscono anche la casa, la rendono bella, per certi versi le conferiscono la sua specificità. Ecco, Charlie, il protagonista è tutto questo; apparentemente solo tappezzeria remissiva, ma nasconde, nelle pieghe del tessuto, preziosità insospettabili. Capace di sentimenti alti, di sofferenze
indicibili (quelle tipiche dell’adolescenza), a cui rischia anche di soccombere, anche a causa di un’esperienza rimossa
di violenza familiare.

Noi siamo infinito, non perché ciascuno di noi sia capace di superare sempre i nostri limiti, ma perché siamo più di noi stessi, siamo essere-per, siamo essere con; un’immagine di un Dio che ci ha chiesti di diventare sempre più a Lui somiglianti. A Lui, non un Dio uno, ma un Dio comunità di amore.
Noi siamo infinito,
non perché ciascuno
di noi sia capace di
superare sempre i nostri
limiti, ma perché siamo
più di noi stessi, siamo
essere-per, siamo essere
con; un’immagine di un
Dio che ci ha chiesti di
diventare sempre più a
Lui somiglianti. A Lui,
non un Dio uno, ma un
Dio comunità di amore.

In realtà vive in una famiglia piena di affetto, nella luce riflessa di un fratello maggiore, grande sportivo, vivendo una religione tradizionale molto presente, non formale, sentita anche autenticamente dai figli stessi, ma praticata
con delle libertà tipiche di questo mondo incoerente. Entra in gruppo di amici, più grandi, anche loro problematici
e per certi versi ai margini; si innamora perdutamente, e senza mai osare confessarlo nemmeno a se stesso fino alla fine, di una ragazza più grande a cui si accontenta di “dare ripetizioni“ di matematica aiutandola ad entrare al college, ma facendole trovare fiducia in se stessa; frequenta il fratellastro di lei, omosessuale che accoglie con sincera amicizia schierandosi dalla sua parte anche nelle difficoltà tipiche del razzismo attuale; vive con sincera partecipazione le lezioni del professore di letteratura da cui spera di imparare tutto, volendo diventare a sua volta uno scrittore. Un mondo complesso, fatto di bellezza e sofferenza, di amicizia e tradimenti, in cui sembra che solo i protagonisti (o pochi altri) sappiano vivere sentimenti autentici, mentre tutti intorno sopravvivono nella mediocrità
della accettazione rituale dei propri ruoli e delle proprie maschere. Tutto il film oscilla come un pendolo tra due frasi (una pronunciata due volte all’interno della storia): “Noi tutti accettiamo l’amore che pensiamo di meritare” e l’altra, posta alla fine del film e che ne costituisce apparentemente il messaggio fondamentale: “Qui, adesso questo
sta succedendo. Io sono qui e sto guardando lei, ed è bellissima!

Ora lo vedo, il momento in cui sai di non essere una storia triste… E senti quella canzone, su quella strada, con quelle persone a cui vuoi più bene al mondo. E in questo momento, te lo giuro, noi siamo infinito!” Due frasi che mi piace analizzare dal punto di vista quasi esclusivamente grammaticale: sono due frasi che non banalmente si presentano con un soggetto plurale, il NOI che accomuna in un certo senso, se non l’intero genere umano, almeno una  Generazione, sempre piena di difficoltà come l’adolescenza, ma che in questo momento storico soffre particolarmente di mancanza di maestri, di mancanza del desiderio di avere maestri, di mancanza di prospettive e di mancanza del desiderio di avere prospettive. Abbiamo già analizzato su queste pagine come l’esclusivo  The-Perks-of-Being-a-W_optautocentramento sull’io non porti ad una crescita equilibrata, abbiamo già visto come solo la dimensione della relazione ci renda capaci di andare oltre la somma degli individui, per la fondazione di un NOI autentico. Abbiamo
già compreso come solo la relazione con l’altro ci renda capaci di un autentico superamento del sé autarchico e narcisistico; in una parola ci renda capaci di trascendenza, di accogliere ciò che ci viene come dono e desiderosi
di restituzione di un dono autentico come solo la persona autentica ed integrale può essere.

Noi accettiamo l’amore che pensiamo di meritare, generalmente molto meno di quello a cui ciascuno di noi avrebbe diritto, perché guardiamo solo al nostro essere e non al mondo che vive all’interno della vita degli altri.

IL SENSO DEL NOI
In questa epoca storica dove mancano maestri e prospettive, la dimensione relazionale diventa la strada da seguire per salvarsi. Uscire dall’individualismo alla riscoperta delle relazioni e aprirsi agli altri è il filo che può condurre
anche a dio.

Di nuovo amici

90dfe3b13b57422f828aa7_opt*di Luigi Cioni*
Dopo la nostra lunga riflessione sul peccato, non potevamo esimerci dal porre l’accento, come logica ed inevitabile conclusione, sul tema della riconciliazione e del perdono. E, come al solito, cerchiamo anche su questo tema di non porre la questione di principio: occorre trovare modalità di perdono, accostarci al sacramento della confessione, ricorrere alla Misericordia del Signore, ecc. No, nessuno si accosterà mai al sacramento della riconciliazione
finché non avrà compiuto almeno due passi inprescindibili:
Da una parte rendersi conto che quello che ho commesso è un errore, e non solo perché qualcuno dice che va contro a dei precetti stabiliti da chissà chi, ma perché capisco che questo va contro il bene mio e di chi mi sta accanto; compie un oggettivo male, fa accadere qualcosa che lede la dignità di chi ne è offeso e anche di me che l’ho commessa; dall’altra comprendere chi è colui che può liberarmi da questo stesso male; non un entità
sovraterrena con cui non ho a che fare per nove decimi (essendo ottimisti) della mia giornata e al cui giudizio mi sottopongo (anzi a quello del prete!!) solo per tradizione annuale quando arrivano le grandi festività.

Interessante sul tema del perdono anche una riflessione sul Film Mission di Joffè Il mercante di schiavi (Robert De Niro) è costretto a portare come penitenza una soma che contiene tutte le armi della sua vita (deve portarsi dietro il peso del suo passata) e affrontare un lungo cammino. Ad un certo punto uno dei suoi compagni lo libera e lui torna indietro a riprendere di nuovo la fonte della sua oppressione (dal suo passato non è ancora libero) non è lui che può perdonarlo, ma solo coloro a cui ha fatto veramente del male
Interessante sul tema
del perdono anche una
riflessione sul Film
Mission di Joffè
Il mercante di schiavi
(Robert De Niro) è
costretto a portare come
penitenza una soma che
contiene tutte le armi della
sua vita (deve portarsi
dietro il peso del suo
passata) e affrontare un
lungo cammino. Ad un
certo punto uno dei suoi
compagni lo libera e lui
torna indietro a riprendere
di nuovo la fonte della
sua oppressione (dal suo
passato non è ancora
libero) non è lui che può
perdonarlo, ma solo coloro
a cui ha fatto veramente
del male

Dopo un anno intero di Giubileo della Misericordia forse alcune le mie considerazioni risulteranno scontate; ma vale sempre la pena di ricordarcele.
Parto ancora una volta da una storia biblica che noi tutti conosciamo: quella del Figliol prodigo (Lc 15) o meglio “del Padre misericordioso”. Tutti poniamo l’accento sul figlio minore che va a sperperare il patrimonio paterno e non mettiamo mai l’accento sul figlio maggiore che non mostra nessuna gioia per il ritorno del peccatore. Certamente nessuno affronta volentieri un giudizio inesorabile e duro (mi verrebbe
da dire fondamentalista) come quello. Forse se avessimo di fronte un Padre come quello della parabola, tutti avremmo più gioia al pensiero della riconciliazione. Eppure ciò che Gesù ci annuncia di Dio è proprio questo: Dio è come il Padre del Figliol prodigo (e sempre nello stesso
capitolo, il pastore che cerca una pecora perduta, una vecchietta
che mette a soqquadro la casa per trovare una monetina dispersa,
ecc). Allora forse sarebbe il caso di non parlare esclusivamente
di “penitenza”, di contrizione, di pentimento (tutte cose certamente necessarie) ma porre soprattutto l’accento sull’amore.
Tuo padre e tua madre ti amano! Non ne sei felice? La tua ragazza ti ama! Puoi pensare ad un miracolo più grande di questo? Dio ti ama! Pensi davvero che dopo aver fatto questa scelta dall’eternità metta tuttoin questione per un tuo stupido sbaglio?
Hai capito che quello che hai fatto ha rotto dei rapporti? Ha incrinato delle relazioni? Hai capito che non era degno di te il modo in cui ti sei comportato? Hai finalmente compreso che nell’aderire a quel comportamento hai fatto una scelta che non ti ha dato gioia e serenità,
ma hai semplicemente creduto di poter diventare più grande a scapito di altri? Più ricco creando la povertà altrui? Più perfetto e compiuto togliendo completezza e perfezione a quell’ambiente in cui non hai più trovato (e per colpa tua) quelle situazioni che ti potevano completare
veramente? Allora vai! Vai da quella persona che forse ti può comprendere e ti può mostrare l’amore di Dio, ti può indicare il giusto cammino, ti può far ritrovare la gioia della relazione, indicare il percorso del risanamento, ristabilire la giusta posizione delle cose, nella tua storia e nel tuo spirito. Certo è il tuo sacerdote, ma può anche non essere il tuo; e può non essere nemmeno un sacerdote, ma quella persona che ti fa sperimentare la gioia  del giusto cammino e che poi dal sacerdote ti manda perchè tu possa arrivare davvero all’amore di Dio. Non hai vicino a te una persona così? Cercala! Scandaglia tutti i tuoi gruppi, le tue conoscenze, chiedi, investiga, implora aiuto, ma trovala!
Non ne puoi fare a meno, perchè sicuramente nella tua vita sbaglierai, commetterai errori, infrangerai delle relazioni e dei cuori e, solo nel cuore di Dio troverai un amore così grande che renderà capace te, e tutte le persone che avrai offeso, di superare ogni ostacolo, di aprire le braccia e dirti: Benvenuto! Non aspettavo altro che te! Nessuno
altro posto è bello come questo: tra le mie braccia.

IL TEMA DEL PERDONO
Certamente il tema del perdono deve essere affrontato anche da un altro punto di vista: “Quanto e come perdonare?” La risposta di Gesù è nota e può essere annoverata tra le poche sue parole conosciute da tutti “fino a settanta volte sette” (che cosa voglia dire poi è tutto da comprendere). Rimandiamo però la trattazione di questo aspetto ad un’altra occasione. Nel frattempo solo un piccolo suggerimento che può venire da un libro che di questo argomento ha fatto tema specifico e in un momento storico altamente significativo: “si possono perdonare i tedeschi dopo la Shoah? Leggiamo Simon Wiesenthal Il girasole, Ed. Garzanti

Come vorrei che nascesse un’alleanza tra il tuo amore e il mio

Dio ci viene a cercare!  Ci viene a chiedere  “dove sei?”  non perché non lo sappia, ma perché vuole farci riflettere su dove siamo arrivati nel nostro cammino, che potrebbe essere di amore e unione e che diventa, nel peccato, paura e sospetto.
Dio ci viene a cercare!
Ci viene a chiedere
“dove sei?”
non perché non lo sappia, ma perché vuole farci riflettere su dove siamo arrivati nel nostro cammino, che potrebbe essere di amore e unione e che diventa, nel peccato, paura e sospetto.

*di Luigi Cioni*
Un uomo e una donna, anzi un ragazzo e una ragazza, quasi indistinguibili benchè nudi, che si avviano, dolorosamente, ma quasi serenamente verso “il fuori”, verso l’ignoto, mentre il nostro, il conosciuto, il dentro, è loro precluso dal serpente che li aveva invogliati a disobbedire, blandendoli con la promessa di diventare come Dio. Comprendiamo tutti che stiamo parlando di Adamo ed Eva, e, nel dettaglio, di Adamo ed Eva dopo il peccato. Proprio su questa parola, o meglio su questa dura realtà vorrei cercare di meditare; di questo aspetto del nostro essere, che è talmente correlato alla nostra quotidianità da apparire quasi scontato. Ci troviamo quasi ad essere meravigliati di non averlo incontrato prima durante i nostri itinerari e pellegrinaggi nella vita spirituale.
Nella nostra disamina del concetto di relazione e degli aspetti ad esso correlati però non poteva tardare a lungo ad apparire anche questa dimensione, che alla relazione è intimamente correlata.
E proprio nella nudità dei corpi che questo ci viene rivelato.
Nella nostra società, spesso inutilmente libertaria, o eccessivamente moralista, rischiamo di interpretare male anche la rivelazione della Bibbia.

Gen 2,25
Tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna.

Gen 3,7
Conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture

Adamo ed Eva sono nudi e non provano vergogna. Dopo il peccato, la loro prima reazione è quella di coprirsi (e questo ha spinto molti a far dire al testo che il peccato originale fosse un peccato sessuale, dimenticando che Dio stesso, poche righe prima, ha indicato l’unione sessuale come la dimensione propria della coppia).
In realtà il sesso in queste espressioni non c’entra proprio nulla. Adamo ed Eva sono nudi, sono evidenti, sono

OGNI VOLTA DALL’INIZIO  C’è un’armonia che va oltre noi e la nostra natura, un’armonia che ci lega indissolubilmente a Dio. Se riuscissimo ad individuare la bellezza di ogni essere umano, al di la delle differenze, potremmo scoprire questa alleanza tra noi e il Creatore. Basta mettere l’amore al di sopra di tutto. Stare uno difronte all’altro senza trucchi non è facile, eppure amare significa anche passare sopra i difetti.
OGNI VOLTA DALL’INIZIO
C’è un’armonia che va oltre noi e la nostra natura, un’armonia che ci lega indissolubilmente a Dio. Se riuscissimo ad individuare la bellezza di ogni essere umano, al di la delle differenze, potremmo scoprire questa alleanza tra noi e il Creatore. Basta mettere l’amore al di sopra di tutto. Stare uno difronte all’altro senza trucchi non è facile, eppure amare significa anche passare sopra i difetti.

davanti all’altro e a Dio così come sono, senza nascondimenti, senza trucchi o vestiti tesi a coprire i difetti.
E non si vergognano! Non hanno bisogno di mascherarsi, non hanno bisogno di nascondere i loro limiti! Li conoscono, sanno che altri li vedono, ma li accettano e, al contempo, si fidano. Sanno che l’altro non li userà per offendere o prevaricare, sanno che l’altro (e l’Altro) sapranno amare anche quelli. Sapranno che un difetto non farà scomparire la tenerezza. Possiamo proprio dire che la loro relazione è solida! Esiste un’armonia che sembra indistruttibile; armonia tra la coppia, tra loro e Dio, tra loro e la natura circostante (non mangiano carne per cui neppure per gli animali esiste la morte). Ed invece basta così poco!
Basta che ciascuno di noi abbia qualcosa di cui vergognarsi, qualcosa da nascondere, qualcosa che costituisce una scelta ingiusta, un peccato, e la prima cosa che accade è una frattura.
Frattura tra noi e gli altri, tra noi e Dio, tra noi e la natura. Tra noi e noi stessi; ci vergogniamo di ciò che siamo, e soprattutto dei nostri limiti e dei nostri difetti. Non ci fidiamo più!
Certo che Dio ci viene a cercare! Ci viene a chiedere “dove sei?” non perché non lo sappia, ma perché vuole farci riflettere su dove siamo arrivati nel nostro cammino, che potrebbe essere di amore e unione e che diventa, nel peccato, paura e sospetto.

https://www.youtube.com/watch?v=NU5FPAR7ass
https://www.youtube.com/watch?v=NU5FPAR7ass

Ancora una volta ci viene in aiuto Leonard Cohen, (che ho spesso citato in queste pagine, ma, come dico spesso, ognuno di noi ha la sua storia e le sue frequentazioni, per non dire “la sua età”).
Nel suo disco di addio esiste un brano intitolato Treaty; i riferimenti biblici si sprecano, dall’Antico e dal Nuovo Testamento, ma una sua espressione mi sembra indispensabile al nostro procedere. Una immagine di come ci sentiamo quando il nostro io è dominato dal peccato: “Soltanto uno di noi due era vero – ed ero io”.
Ma la conclusione di tutta questa analisi, che vorrebbe essere biblica e spirituale allo stesso tempo, come pure della canzone, è una sola:
“come vorrei che nascesse un’alleanza, tra il tuo amore e il mio”.
Anche Dio fa così! Riparte da capo, con Noè, con Abramo, con Mosè, ecc. Potremmo quasi dire che neanche Dio sa stare solo!
Ma non si esce dal peccato e dalla frattura della disarmonia pesando ragioni e torti, analizzando le colpe e le giustificazioni.
Dal peccato si rinasce, dal dubbio della consistenza dell’altro si esce, quando non solo comprendiamo la bellezza dell’altro e del suo amore, ma quando comprendiamo e desideriamo con tutto noi stessi, che tra la diversità delle persone, tra le diversità anche interne all’affetto, può nascere un’alleanza, la volontà di mettere l’amore al di sopra di tutto.

Siate umanamente santi

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Martin BUBER, L’eclissi di Dio, ed. it. Edizioni di Comunità, Milano, 1961, pp.13-16

*di Luigi Cioni* Scesi nello studio che mi era stato offerto come luogo di lavoro, se ne avessi avuto bisogno, e vi trovai già seduto alla scrivania l’anziano signore. Dopo il saluto mi domandò subito dello scritto che avevo in mano e, saputone il contenuto, mi chiese se ero disposto a leggere ad alta voce. Accettai volentieri. Egli ascoltò gentilmente anche se con meraviglia e alla fine con evidente stupore. Quando ebbi terminato egli intervenne, dapprima esitante e poi sempre più appassionatamente, trascinato a dall’argomento che gli stava a cuore e disse: “Mi meraviglio che le sia possibile di pronunciare tante volte la parola ‘Dio’. Come può pensare che i lettori accolgano questo nome nel modo in cui lo vorrebbe sapere inteso e onorato? Lei intende parlare di colui che è superiore ad ogni avvicinamento, a ogni comprensione umana, proprio questo essere superiore lei vuole indicare; ma in quanto pronuncia il suo nome, lo lascia in balia dell’uomo. Quale altra parola del linguaggio umano fu così maltrattata, macchiata e deturpata? Tutto il sangue innocente che venne versato in suo nome, le ha tolto il suo splendore. Tutte le ingiustizie che fu costretta a coprire hanno offuscato la sua chiarezza. Mi sembra una diffamazione nominare l’Altissimo col nome di ‘Dio’”. Gli occhi chiari come quelli di un bambino lampeggiavano. La voce stessa era infiammata. Poi ci sedemmo di fronte in silenzio per un poco. La stanza era inondata dalla chiarezza del primo mattino. A me sembrava che con la luce entrasse in me una forza.. Non posso riferire esattamente ciò che risposi, posso soltanto accennare al discorso di allora.
“Sì”, risposi, “è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano, nessuna è stata talmente insudiciata e lacerata.. Proprio per questo non devo rinunciare ad essa. Generazioni di uomini hanno scaricato il peso della loro vita angustiata su questa parola e l’hanno schiacciata al suolo; ora giace nella polvere e porta tutti i loro fardelli. Generazioni di uomini hanno lacerato questo nome con la loro divisione in partiti religiosi; hanno ucciso e sono morti per questa idea e il nome di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue. Dove potrei trovare una parola che gli assomigliasse per indicare l’Altissimo? Se prendessi il concetto più puro e più splendido della tesoreria più riposta dei filosofi vi potrei trovare soltanto una pallida immagine di pensiero, ma non la presenza di colui che intendo, di colui che generazioni di uomini, con le loro innumerevoli vite e morti, hanno onorato e denigrato. Intendo parlare di quell’Essere a cui si rivolge l’umanità straziata ed esultante. Certamente essi disegnano smorfie e scrivono sotto ‘Dio’; si uccidono a vicenda e dicono ‘il nome di Dio’. Ma quando scompare ogni illusione e ogni inganno, quando gli stanno di fronte nell’oscurità piena di solitudine e non dicono più ‘Egli, Egli’, ma sospirano ‘Tu, Tu’ e implorano ‘Tu’, intendono lo stesso essere; e quando vi aggiungono ‘Dio’, non invocano forse il vero Dio l’unico vivente, il Dio delle creature umane? Non è forse lui che li ode? Che li – esaudisce? La parola ‘Dio’ non è forse proprio per questo la parola dell’invocazione, la Parola divenuta nome, consacrata per tutti i tempi in tutte le parlate umane? Possiamo rispettare coloro che lo disprezzano perché troppo spesso altri si coprono con questo nome per giustificare ingiustizie e soprusi; ma questo nome non dobbiamo abbandonare e sacrificare. Si può comprendere che vi sia chi desidera tacere per un periodo di tempo delle ‘cose ultime’, perché vengano redente le parole di cui si è fatto cattivo uso. Ma in tal modo non si possono redimere. Non possiamo lavare da tutte le macchie la parola ‘Dio’ e nemmeno renderla inviolata; possiamo però sollevarla da terra e, macchiata e lacerata com’è, innalzarla sopra un’ora di grande dolore”. La stanza si era fatta molto chiara. La luce non fluiva più, era presente.. L’anziano Signore si alzò, si diresse verso di me, mi pose la mano sulla spalla e mi disse: “Vogliamo darci del TU?” Il colloquio era compiuto. Poiché dove due sono uniti veramente, lo sono nel nome di Dio.

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Quante volte un abbraccio vale più di mille discorsi…

Il nostro discorso sulla relazione sembra non avere più una fine! Eppure credo che tutti stiamo intuendo che alcuni sviluppi sono necessari; che ci può essere un “oltre”, un “di più” che finora non abbiamo esplicitato, ma che si presenta come una necessità. Tutti vediamo che quando “comunichiamo” davvero con una persona, quando si sviluppa qualcosa che ci unisce davvero, quando davvero ci immettiamo nella dinamica del dono (confronta articolo “Donare o fare un regalo” di Luigi Cioni, Sentieri n.6) sentiamo che esiste un qualcosa che non riusciamo a spiegare semplicemente con le nostre qualità umane. Potremmo dire che ci sentiamo davvero “nel cuore di Dio”.
Sembra una affermazione totalmente derivata dalla fede, mentre fino ad ora abbiamo cercato di mostrare le ragioni antropologiche della nostra spiritualità; eppure anche adesso non è così. Certamente l’uomo non si esaurisce nel dinamismo della volontà e della materia. Certamente se cerchiamo di arrivare al fondo del nostro sentire scopriamo qualcosa che va oltre, e che le parole spesso non riescono a dire.
Sicuramente cercheremo di usare tutti i linguaggi di cui possediamo la chiave (quante volte un abbraccio ha significato più di mille discorsi?), sicuramente cercheremo di lasciare spazio anche al silenzio (come nel mio articolo del numero 1 di questa rivista), ma sappiamo che tutte le volte che useremo compiutamente la parola “tu” riusciremo ad aprire delle porte sconosciute, di cui pensavamo di non possedere le chiavi, di cui talvolta ignoriamo perfino l’esistenza.

Dalla terra al cielo Una strada che va dalla terra al cielo, dalla nostra piccola umanità alla “divinità” di cui siamo capaci, dal nostro piccolo amore, all’Amore di Dio: è questa la strada che dobbiamo percorrere, al di là delle nostre solitudini, dei momenti di buio. è questa la strada che ci permette di entrare in comunicazione vera con gli altri e che ci svela l’esistenza di un “oltre”. Siamo fatti per l’eternità.
Dalla terra al cielo
Una strada che va dalla terra al cielo, dalla nostra piccola umanità alla “divinità” di cui siamo capaci, dal nostro piccolo amore, all’Amore di Dio: è questa la strada che dobbiamo percorrere, al di là delle nostre solitudini, dei momenti di buio.
è questa la strada che ci permette di entrare in comunicazione vera con gli altri e che ci svela l’esistenza di un “oltre”.
Siamo fatti per l’eternità.

Certamente non sappiamo minimamente dove conducano!
Sappiamo solo che il nostro cuore si apre a dimensioni inconsuete, che una gioia inusuale si apre nel nostro animo. Ci sentiamo capaci di qualcosa di più grande della nostra piccola umanità. E anche se queste sensazioni durano poco, se poi ricadiamo abbastanza presto nella quotidianità e nel nostro egoismo (quando addirittura non nella notte dell’anima; confronta articolo “La notte oscura dell’anima” di Luigi Cioni n.4 Sentieri) il loro ricordo basta spesso a illuminarci, a farci coscienti del fatto che possiamo essere capaci di qualcosa di più, di qualcosa di meglio, di qualcosa di più alto.
Ma perché non ci montiamo la testa; perché non confidiamo troppo in noi stessi, io vorrei chiamare tutto questo con il suo vero nome: si chiama Dio. Quel Dio a cui diamo del Tu, perché per primo si è rivolto a noi interpellandoci nella nostra personalità più intima.

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti colo-ro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.
Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. Gaudium et spes n° 1

Un Dio a cui possiamo dare del Tu, perché la nostra vita (informata della sua presenza) ha imparato a dare del tu alle persone a cui vogliamo bene e sappiamo che quando arriviamo a questo livelli di confidenza (direi di relazione, che non si spiega con nessuna forma di conoscenza o esperienza), come abbiamo detto prima, ci troviamo in un “oltre” inaspettato.
Possiamo quindi percorrere una strada, che certamente è inversa rispetto alla realtà delle cose, ma diretta in base alla nostra esperienza; una strada che va dalla terra al cielo; dalle nostra piccola umanità alla “divinità” di cui siamo capaci, dal nostro piccolo amore, all’Amore di Dio.
Diceva Rabbi Menahem Mendel di Kotzk “Dio dice all’uomo: Siatemi umanamente santi!” e perché non crediamo che questo modo di sentire sia esclusivo di chi vive nella tradizione cristiana riporto altri due aneddoti ebraici che credo chi possano fornire spunti di riflessione:
Un discepolo chiese al suo rabbi: Perché vi scagliate sempre con violenza contro la ricchezza?
Il rabbi rispose: Figlio mio guarda dalla finestra; che cosa vedi? Il discepolo rispose: Vedo due donne che stanno conversando, una mamma col proprio bambino; due ragazzi che giocano in strada e un uomo che sta andando a lavorare.
Bravo! – esclamò il rabbi – adesso guarda verso lo specchio. Cosa vedi? (vorrei ricordare che per fare una specchio occorre stendere un sottile velo di argento dietro un vetro)
Rabbi, vedo me stesso!

ascolta: Sergio Cammariere: "mi troverai "
ascolta: Sergio Cammariere: mi troverai

Ecco! – esclamo il rabbi – Vedi? Basta pochissimo argento e l’uomo vede solo se stesso!”
Rabbi Davide senti un giorno un uomo semplice che, pregando, alla fine di ogni versetto diceva il nome di Dio. Questo avveniva perché alla fine del rigo stanno due punti uno sull’altro. (segno di punteggiatura, si chiamano iud che significa anche ebreo; nella tradizione ebraica, inoltre, il nome di Dio, impronunciabile, si abbrevia con due iud una accanto all’altra. Egli, nella sua semplicità credeva che il segno di punteggiatura fosse il nome di Dio).
Il rabbi allora gli disse: quando tu trovi due iud (o due giudei) uno accanto all’altro, lì è il nome di Dio. Ma dove uno iud sta sopra l’altro; lì Dio non può stare.

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L’amico ritrovato di Fred Uhlman Feltrinelli 1986
L’amico ritrovato di Fred Uhlman Feltrinelli 1986

Il saluto

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guarda un pezzo del film https://youtu.be/vP7_zYDIiZY

*di Luigi Cioni*
Riprendiamo da dove ci eravamo lasciati.
Una relazione si compone di molte realtà, di una infinità di piccoli gesti. In ognuno di essi possiamo realizzare il nostro dovere, la nostra eduzione tradizionale, la nostra cortesia formale.
“Ciao. Come stai?” “Bene e tu?”

Oppure possiamo inserire in tutto questo una intenzionalità diversa; possiamo cercare di rendere ogni gesto significativo, cioè “pieno di significato”.
Tutti sappiamo di cosa sto parlando; tutti abbiamo fatto esperienza di un piccolo evento apparentemente insignificante, ma che assunto senso e importanza nella nostra vita, l’emergere di un significato, di una volontà, di un inaspettato che ci sorprende, ci fa nascere dentro gioia e felicità.
Questo accade quando, in una relazione, esiste quella dimensione che non è solo sentimento, né solo intellettualità o ricerca, che generalmente si chiama “cura”.
Cura nel senso di “prendersi cura”, “avere a cuore”, “interessarsi”. In una parola un “I care” di Don Milani applicato alle persone e, come lui certamente intendeva, in senso forte, fortissimo.
Abbiamo già cercato di meditare insieme su questo, a proposito del dono; oggi mi piacerebbe vedere quanto questo sia vero anche in una piccolissima nostra comune esperienza: quella del saluto.

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ascolta la canzone delle domande consuete https://youtu.be/6u7n05gOgbA

Non è un caso che, traducendo letteralmente i saluti delle varie lingue, troviamo significati veramente importanti: pace a te; stai bene; rinforzati; che tu possa risanarti; che tu possa essere salvo….
Il saluto poi è anche risposta a chi, a sua volta, ti ha salutato e ti è venuto incontro, chi ti ha cercato e chiamato; manifesta quindi non solo la relazione, ma anche la disponibilità a rinnovare la relazione stessa.
Ancora una volta: “Eccomi! Ci sono!”
Ed è sempre stato così. Basta leggere i racconti dei patriarchi, fino a Mosè: la risposta di questi grandi uomini, che la Sacra Scrittura ci riporta come esempi, è sempre la stessa: “Hinneni” Ecco me” eccomi!”
Sono qui! Ti ascolto! Non aspettavo altro che essere interpellato e ricevere la tua parola, la tua chiamata, il tuo saluto.
Sapere che sono stato importante per te, che mi hai cercato e rispondere per farti sapere che, senza questo tuo saluto, mi sarei sentito solo e incapace.
Sono qui! Non sono granchè, ma tutto quello che ho lo metto a disposizione di questo nostro incontro.
Non so se tutto questo avrà un futuro. Spero di sì, ma non lo so. Adesso però in questo preciso momento fai pure conto su di me: io ci sono! Sono pronto!
In una vecchissima serie televisiva su Mosè, interpretato Burt Lancaster la regia aveva fatto una scelta molto interessante: proprio nella scena del roveto ardente, quando anche Mosè esprime il suo “eccomi”, la voce di Dio (che si sente fuori campo) è la voce stessa, interna, del protagonista. Non è un dialogo con se stesso, ma un dialogo con Dio che però non è una cosa fuori di te, ma che entra dentro di te per prendersi cura della tua persona e del tuo futuro.

Che si tratti di Dio o di un tuo amico, che si tratti della persona con cui abbiamo deciso di condividere la vita, o un incontro occasionale, ma in cui abbiamo deciso di investire la nostra spiritualità, abbiamo un’unica parola da pronunciare:
Eccomi! Ci sono” sono pronto!

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ascolta la canzone Hallelujah https://youtu.be/YrLk4vdY28Q

Abbiamo ascoltato in questo periodo un “eccomi” particolare.
È morto un grande poeta, che tutti conosciamo come l’autore del famosissimo Halleluja cantato da Jeff Buckley del film di animazione “Shreck”: Leonard Cohen.
Circa un mese prima di morire ha pubblicato il suo ultimo CD: You want it darker
La sua origine ebraica e la sua passione “religiosa” lo ha sempre contraddistinto anche se non sempre correttamente interpretata dalla critica. (nello stesso Halleluja il riferimento, nemmeno troppo implicito, è a 2Sam 11).
Il suo “Eccomi” (Hinneni) assume significato particolare, un monito anche per tutti noi, oltre i confini confessionali: “I’m ready, my Lord”. (nel testo ci sono anche riferimenti alla preghiera del Qaddish, la preghiera per i defunti della liturgia ebraica).

QUELLA PICCOLISSIMA PAROLA
Molte volte al giorno noi salutiamo e siamo salutati; in fretta senza fermarci, oppure scambiando due parole di circostanza. D’altro canto può accadere invece che ci fermiamo e guardiamo negli occhi chi ci sta di fronte, sapendo che in quella piccolissima parola mettiamo tutto noi stessi. Ci presentiamo e diciamo: “Eccomi; sono qui per te! Sono sempre stato al tuo fianco, anche prima, quando non potevamo vederci ed essere accanto; ma adesso ci sono!”

Io e tu

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ascolta la canzone di Francesco Renga https://www.youtube.com/watch?v=ggwElE4rlzk

*di Luigi Cioni*
Andiamo al’inizio della storia dell’umanità: “Non è bene che l’uomo sia solo; gli voglio fare un aiuto ce gli corrisponda!” (Gen 2,18)

Ma che cosa vuol dire che gli corrisponda? Che sia uguale a Lui? O “Simile” come diceva la vecchia traduzione della Bibbia? Due esseri i cui profili si possono sovrapporre senza sbavature o diversità?

Il testo originale dice – addirittura – “un aiuto opposto a lui”; espressione che sembra una aperta contraddizione!! L’uomo “Adam” guarda a tutti gli animali creati da Dio proprio per lui, ma non trova un essere di suo gusto. Dopo la creazione della donna invece esclama: “Finalmente; questa sì che mi piace! A lei non devo dare il nome (come un padrone), perché Dio stesso le conferirà il titolo di progenitrice; a lei non devo comandare perché è dalla mia costola, dalla mia cassa toracica, dalla prossimità del mio cuore, dalla ‘casa’ dei miei organi vitali. Con lei posso costruire uno scambio, una relazione, una casa.

fumetto-luigi-cioniDove io ho dei vuoti, lei li colmerà, dove io ho delle risorse riuscirò a colmare le sue mancanze. Così saremo “corrisposti”, complementari!

Sì, la riconosco!

Sì, tra le sue braccia posso abitare!

Sì la sua spalla sarà il luogo del riposo della sua guancia, del dono della mia apertura !”

Una lunga presentazione biblica per vedere il piano di Dio non solo sulla coppia matrimoniale,ma su tutte le relazioni; non fondata sull’uguaglianza, ma su riconoscimento dei punti di forza (o sulle mancanze) comuni, ma sull’altro come “diverso”, come risorsa, come nuovo che irrompe nella nostra vita.

Un filosofo del ‘900, E. Levinas, dice che basta guardare al volto dell’altro per riconoscere che io non sarò mai capace di comprenderlo, possederlo totalmente. Per cui, il volto dell’altro, in maniera immediata, mi dice “Tu non mi ucciderai! Altrimenti tutto quello che potrei portare nella tua vita, e che solo io possiedo, come essere unico ed irripetibile, tu lo perderai!”

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Lo so che tutti consigliano libri da leggere, ma questo è davvero bello e anche molto breve: Le sante dello scandalo, di Erri De Luca

Io e Tu, una logica che non si trova nell’uguale e nel diverso, ma sulla consapevolezza che tutti sono “diversi”, immediatamente ed irrimediabilmente, ma proprio per questo capaci di infinità ricchezza. Un IO e un Tu che diventeranno NOI; una realtà ben più ricca della somma dei singoli.

E tutto questo, come già detto, non solo nella relazione matrimoniale, ma in ogni relazione. Anzi vorrei dire nella “semplice” amicizia c’è, o ci può essere, qualcosa di più: la mancanza di responsabilità. Nessuno è più dell’altro, nessuno ha compiti precipui di educazione. C’è quel dono di cui abbiamo già parlato, che si fonda proprio sulla volontà pura di amore e, come abbiamo visto, nel disegno originario di Dio.

Aahh; una piccola cosa ancora: come abbiamo già meditato, se tutto questo è cristiano, lo è proprio in quanto “autenticamente umano” (cfr Gaudium et spes, 1).

il-cielo-sopra-berlinoUn film molto complesso, ma straordinariamente efficace: Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders (clicca sulla foto per vedere il trailer), narra la storia di un angelo che decide di diventare umano per amore di una donna (banalizzato fortemente da un remake intitolato City of angel di Brad Silberling. Per un film più semplice forse è migliore Noi siamo infinito  di Steven Chbonsky