*di don Mario Simula*
Mi sono trovato fra le mani – non so se per caso o per fortuna o per disgrazia – un selfie di mio padre che si rotola per terra col figlio – che sarei io! – ancora piccolo.
Siccome è una foto che non metterei mai in circolazione su face-book senza “crepare” di vergogna, mi sono detto: ”La strappo? La distruggo? La faccio scomparire dalla faccia della terra?”.
Eppure quel babbo tenero, un po’ di tenerezza me la stava scatenando nel cuore. Per un momento ho lasciato che gli occhi strizzassero qualche lacrimuccia: in fondo, povero babbo, qualche problemino doveva averlo pure lui.
Sentendomi figlio “buono” anche se molto “adirato”, ho dato sfogo alla mia ribellione e alla mia protesta. E dalla foto è nata la lettera. Quasi autobiografica.
Caro babbo, ti scrivo
Sì, caro babbo, ti scrivo perché sei tu che le spara più grosse di tutti e hai sempre ragione. Soprattutto quando la ragione te la inventi e tutto si risolve nelle solite paternali: “L’ho detto io; si fa così; zitto, che non capisci nulla, tu!”.
Non è di te, però, che voglio parlare, ma di me. Quindi, ascoltami, almeno una volta, con attenzione, senza pensare ai fatti tuoi, scappando di qua e di là. Altrimenti mi obblighi a pensare che hai paura di me. Non sono malato!
Se la malattia è crescere, avere qualche idea, essere, talvolta, un po’ strafottente. Allora sono “malatissimo”!
Eppure mi sento in ottima salute. La testa funziona a meraviglia. Sono un vulcano di idee. Alcune pazzesche. Io stesso mi meraviglio di produrle. Qualcuno dice: “Che diavolo gli passa per la testa, adesso!”.
Una malattia so di averla: il “morbo della diversità”.
Babbo, che stupore! Io non sono te e tu non sei me. Mi piace così. E’ bello così.
Dopo tanti “ricoveri” nei consigli di classe, nelle riunioni di genitori disperati, negli incontri di catechisti ed educatori rassegnati, finalmente sono stato dichiarato clinicamente “sano”!
Siamo ragazzi. Siamo fatti così. Siamo costruiti con questi ormoni. Proviamo questi sentimenti. Cambiamo d’umore. Siamo indecifrabili, nonostante tutte le vostre riunioni dotte e ripetitive. E quello che siamo oggi non lo saremo domani. Nemmeno in chiesa.
A proposito: per chi è fatto quel posto? non ci voglio più ritornare. Che tristezza. Non c’è allegria e passione. Ma io le passioni le sento forti dentro di me. Dove sono capitato? Il Dio di cui mi parlano non mi attira. Mi sembra un “Dio ridotto in miseria”. Lui stesso muore di noia in questo posto e sbadiglia e non vede l’ora che qualcuno la smetta di parlare a sproposito di Lui. Quell’omelia: che pizza, che paranoia: sono malato io oppure il don?
Caro babbo, fattene una ragione! O mi prendi con simpatia, nonostante le “rogne” che riesco a darti (e che qualche volta voglio darti apposta!) o non ci sarò mai nella tua vita. Eppure ho bisogno della tua vita, anche se non te lo dico.
Babbo, non siamo malati. Siamo dei brutti bellissimi. Anche quando ti chiamano a rapporto a scuola. Anche quando, dopo la cresima, scappiamo via di chiesa. Tu non puoi capirlo.
Lo capirà almeno il nostro bravo animatore Giorgio?
Che tipo strano. E’ insopportabile come me, eppure si comporta come “un grande”. Giorgio, dati una mossa: è troppo presto per rimanere contagiato dal ruolo. Ti ricordi come eri trentasei mesi fa?
Ho bisogno di esagerare
Lo capirà mai, il “vecchio”?
Mi sento e ci sentiamo come un recipiente nel quale è stata versata troppo acqua. E l’acqua trabocca. Siamo una pentola a pressione. State alla larga!
Urla da foresta. Complimenti a mano piena, pesanti e dolorosi. Parolacce, parolacce: ci sembrano sempre giuste e al posto giusto. Ci buttiamo addosso alle ragazze, e loro non sono da meno. Usiamo il tabacco al minimo costo, matti nel “farci la sigaretta”, se non ci sono anche le aggiunte.
Siamo una tempesta!
Ti suggerisco, caro babbo (e lascia che lo dica anche a te simpatico Giorgio), di attrezzarti con un antidoto che si chiama: “prendo le distanze”. Dose massima: sempre. Nessuna controindicazione fino a questo momento rilevata, se non quella di “friggere!” nell’olio della pazienza.
Io ti provoco e tu ci caschi. Voglio soltanto mettere alla prova la tua capacità di non vedere ma di osservare, di non ascoltare ma di registrare tutto, di non parlare, subito, ma al momento opportuno.
La mia amica Elisabetta mandava in bestia tutti: padre, madre, parentela, insegnanti, educatori. Poi nel compito in classe aveva la spudoratezza di scrivere: “Mia mamma non sa, cara prof. ogni giorno la ringrazio dentro di me perché è una grande “rompi” e mi richiama sempre, anche quando la mando…. Capisco che mi vuole bene. Ma io non le darò mai la soddisfazione di farle capire che lo capisco”.
Se non sfido le tue punizioni, facendo il contrario di ciò che mi dici, che adolescente sono?
Se conosco soltanto i compiti, il gruppo, le preghiere della sera divento immediatamente un soggetto. Antipatico. Insopportabile. Per questo motivo tante cose le faccio di nascosto!
Ama più il “dopo” che non il “subito”, le reazioni ritardate più che quelle impulsive, babbino mio, mio caro Giorgio. Se parti lancia in resta, sei un donchisciotte. E io, dentro di me, sono tutto soddisfatto. Perché ancora una vota ho vinto. ancora una volta ti ho fatto……
Ma se, quando meno me l’aspetto, in un momento di calma, ti fermi con me a parlare, spunti tutte le mie armi, senza farmi sentire sconfitto.
Che debba essere io a dare i consigli giusti a questo grandone di mio padre e all’animatore col patentino, è proprio una strana cosa. In questi casi mi vergogno di avere la testa con la cresta blu e i tatuaggi. Da domani metto la cravatta, per darmi un tono.
Anche noi abbiamo paura
Sfrecciamo per le strade come matti. Ci crediamo onnipotenti. Proviamo tante esperienze con spavalderia, come cavalli pazzi. Ci risulta proprio difficile misurare il rischio. Ci piace rischiare.
Eppure quante paure ci assalgono.
Temiamo le nostre persone scalpitanti. I malumori che ci assalgono, improvvisi e terribili. Anche i sentimenti ci sconvolgono. A volte investiamo tanto sul cuore. Ma che paure! Noi mangiamo con gli occhi la persona che “amiamo”. La notte, però, tutto ci appare sfigurato, eccessivo. Un incubo: “Se n’è andata. Mi ha lasciato. E adesso come faccio! E nel sogno mi taglio le vene! Ma era soltanto un sogno!”.
Caro babbo, io conosco le tue paure: te le vedo disegnate in viso, nel nervosismo delle mani, nella voce che si altera. nella porta che sbatti, nelle urla inutili e fuori posto che lanci a mamma.
Anche tu, Giorgio. quando vieni per l’incontro non sai dove mettere le mani e i piedi. non sai da dove iniziare. Alla fine anche tu ci fai la predica e ci proponi il gioco che conosco da quasi un secolo. Meglio al bar. Eppure basterebbe poco. Sai quanto prurito mi dà il poter parlare di me, delle mie avv-disavventure. Proprio ieri mi sono chiuso in stanza a tempo indeterminato, Giovanna mi ha raccontato i problemi di casa sua…
Di quante cose potremmo parlare. Su quanti temi potremmo confrontarci. Ma tu hai preparato l’incontro e se esci dalla “carta” non sai proprio come cavartela.
Prendi in mano le nostre paure: sono il nostro pane quotidiano. Sono anche delle bombe a mano da disinnescare, insieme.
Cosa si può fare? Anzi, datti da fare!
Al posto tuo prenderei un pezzo di diario da buttare sul tavolo, in modo che ciascuno, indifferente, se lo trovi fra le mani e magari gli dia una sbirciatina. Oppure preparerei l’ultima canzone di…e la fare trovare in canna all’arrivo di tutti noi. Secondo me susciterebbe la curiosità di qualcuno. Oppure inventerei una storia “vera” che contenga tutti gli ingredienti della nostra vita “spericolata” e mi tufferei dentro con un racconto avvincente e “fastidioso”, che provochi reazioni, un po’ di rabbia e tanta voglia di dire il contrario.
Cari babbo e Giorgio!
Giocatevela questa vostra vita con noi. Senza stampini, senza paternali, senza andare in bestia. con simpatia. Se sapeste quanto di buono c’è in noi, ben sigillato, perché un adulto e un animatore hanno perso la chiave di ingresso?