Bulli si diventa. La storia

di Daniela Novi

Davide guardava con soddisfazione il rivolo di sangue che colava dalla bocca di Marco disteso per terra, con gli occhiali sgangherati al lato della testa, sulle scale del palazzo vicino al bar dove ogni giorno comprava il cornetto per la merenda. Le nocche della mano destra esercitata a sferrare pugni contro il sacco della boxe gli bruciavano ancora. Dentro si sentiva una forza disumana e coraggio da vendere: prese il fazzoletto di carta che aveva in tasca e lo gettò per terra, mentre la sua voce sorda, quasi irriconoscibile, si rivolse decisa alla sua vittima: “E ora pulisciti!”. Un grido dall’alto lo riscosse: “Davide che fai? Fermati!”Dalle finestre del primo piano i compagni di Marco avevano visto tutto e ora stavano scendendo; i professori al suono della campanella si erano distribuiti chi a far entrare i più pigri, chi a prestare aiuto al malcapitato. Davide era tra i primi, diretto verso la sua classe, mentre le voci attorno a lui facevano meno rumore di quelle dentro di lui:”Cosa hai fatto, perché lo hai fatto, potevi ammazzarlo, ed ora che succederà, ti sei giocato l’anno, già ne hai perso uno, che diranno i tuoi genitori?” La forza, che poco prima aveva reso le sue mani più dure dell’acciaio, a poco a poco stava fuoriuscendo da ogni poro della pelle, il guizzo della mascella indurita dalla rabbia si era allentato come le ragioni del suo gesto: “Gli avevo chiesto più volte se fosse stato lui ad attaccarmi la gomma da masticare sui pantaloni due settimane fa durante la partita del torneo interscolastico. Mi ha risposto di no, ma poi mi ha provocato ridendomi addosso e dicendomi che tremava tutto dalla paura. A quel punto non ci ho visto più.” La notizia si era ormai diffusa, Marco era andato in ospedale, dove i medici avevano ricucito il labbro, dandogli una prognosi di dieci giorni: era vivo e incombente il timore di una reazione da parte dei compagni di Marco. I genitori di Davide vennero a prenderlo prima della fine delle lezioni. Nella macchina il silenzio era pesante e più eloquente di mille discorsi. La madre cercava tra le poche parole sopravvissute alla vergogna quelle più giuste per chiedere scusa ai genitori di Marco; il padre, riservato come sempre, scrutava dallo specchietto retrovisore il volto di Davide. Davide, perso nel paesaggio che scorreva veloce oltre il finestrino della macchina, si perdeva nei ricordi…Due anni prima alle scuole medie, nel bagno, tre contro uno, tre contro di lui: sputi, schiaffi, insulti e solo per avere i soldi di quella dannata merenda, per quei cinque euro, di cui doveva portare il resto ai suoi. A casa non aveva detto nulla per mesi, poi una notte, dopo l’ennesimo incubo, lo sfogo con la madre. Solo un attimo di smarrimento e poi la decisione che non avrebbe più subito nulla da nessuno. La palestra, il ring, lo sguardo deciso, la volontà coinvolta fino a dimenticare lo studio: un prezzo modesto per un cambio di rotta, per una vita nuova. Dopo qualche giorno la sanzione scolastica arrivò inesorabile: sospensione con obbligo di servizio alla mensa dei poveri. Sapeva di quella strana usanza nel suo istituto, ma non aveva mai pensato che gli sarebbe toccata. Non ci voleva, costretto ad espiare la colpa nel regno della debolezza, per lui che desiderava essere forte tra i forti, il “più “ tra i tanti meno della terra. Gli convenne piegarsi, le alternative possibili erano di gran lunga peggiori. La mattina si presentò all’appuntamento. La mensa corrispondeva alle sue aspettative: lunghi tavolacci con tovaglie di plastica, ortaggi, frutta e carne sparsi sui tavoli del piano cottura, un odore penetrante assorbito dai muri, lo stesso odore dei volti e delle storie seduti lì ogni giorno per saziare la fame del corpo. Volontari affaccendati nell’organizzare il da farsi lo accolsero con premura, assegnandogli compiti vari. Gli dava fastidio quella propaganda di bontà, quella disponibilità a piene mani, quelle mani che sapevano di cucinato, quegli occhi che brillavano di una calma sconosciuta. A mezzogiorno, prima che si aprisse la mensa, il momento della preghiera: questa poi proprio no. In un angolo, da lontano, ascoltava il suono sommesso delle labbra: “Padre nostro…”, mentre il suono del campanello all’ingresso annunciava l’arrivo degli ospiti. Un corteo di uomini, donne e bambini si precipitò ad occupare una sedia per consumare il desiderato pasto. “Ehi tu, vattene, questo posto è mio”, urlò un uomo grande e grosso a Davide, che aveva l’unica colpa di trovarsi a fianco al tavolo più vicino alla cucina, da cui uscivano i piatti ancora fumanti. La sua prima reazione fu quella di gettare per aria lui e la sua fame e di fuggire via da quel luogo di sporca miseria: al diavolo la sospensione! Sandro, il responsabile della mensa, intuendo che il movimento della mascella del ragazzo stava uscendo fuori dal suo binario, posò una mano su quella di Davide: sarà stato quel calore o forse quello delle pentole traboccanti di pasta… Il battito del suo cuore si placò, arretrò verso la cucina, lasciando libero il posto conteso. Un sussulto lo scosse, la debolezza fece nuovamente capolino, intimandogli di cedere a quella pressione della mano e di non ribellarsi, almeno non subito. Sandro gli si accostò e gli raccontò la storia di quell’ospite urlante: infanzia dolorosa, genitore violento, depressione, la malattia mentale, l’isolamento, la solitudine, la fame. Di nuovo gli si parò dinanzi l’immagine di lui nel bagno mentre i tre compagni lo bullizzavano, però questa volta il viso non era il suo, ma quello dell’uomo grande e grosso di fronte a lui, un po’ più giovane, un po’ più triste. “Ed ora se vuoi, puoi andartene via”, gli disse Sandro alla fine del suo racconto, “non c’è posto per altra violenza qui, nè per la tua, nè per quella degli altri.” Davide si alzò e si sentì finalmente leggero, come se il peso del pugno dato a Marco gli fosse tornato indietro e non avesse trovato nulla contro cui infrangersi. Lentamente si avviò all’uscita deciso a non fare più ritorno. Fu un attimo, poi si voltò, si avvicinò all’ospite pienamente concentrato nel piatto della pasta al sugo, pose la sua mano su quella dell’altro libera dalla forchetta, intenta a stringere il tovagliolo, ultimo lembo di una calda premura. L’ospite alzò lo sguardo, come a difendere un territorio minacciato, incrociò gli occhi di Davide e poi sorrise. Un incontro di fragilità, un passato recuperato, una scintilla di speranza, un nuovo modo di vedere le cose, la capacità di andare oltre la fame fino a toccare il desiderio del cuore. Quel sorriso decise per lui: certamente il giorno dopo sarebbe ritornato.