*di Igino Lanforti*
La volta scorsa parlavamo di storie senza lieto fine. Questa seconda storia ha un fine tragico. E’ una di quelle storie che nessuno vorrebbe mai raccontare. Se vi è mai capitato di vivere l’amara esperienza di un ragazzo che muore, allora mi potrete certo capire. E’ la storia di Andrea e della sua famiglia.
Quando si parla della morte i ragazzi si arrabbiano
Non ho mai pensato che sia utile nascondersi la realtà, né tantomeno nasconderla ai propri allievi. Anche per questo nelle classi terze (quelle più ricettive) alla fine di un percorso su “l’uomo” affronto con i miei alunni il tema del morire. E se il tema è già di per sé problematico in generale, quando si parla della morte di giovani, si scatena una sorta di ribellione. Io lascio che si arrabbino, perché quando la rabbia si cheta, emerge pian piano la riflessione e il desiderio di speranza e, tutti, sono più disposti ad ascoltare.
Avevo consegnato ai ragazzi una scheda con delle frasi che avevo estrapolato da alcuni film visti insieme o da racconti, e chiedevo loro di commentarle. Quel martedì mattina dopo il ritiro della schede, avevo fatto vedere alla 3 B la prima parte del film di Nanni Moretti “la stanza del figlio”, fino al punto in cui il giovane Andrea di diciassette anni (quindi coetaneo dei miei alunni) muore per un incidente subacqueo.
Andrea, un ragazzo speciale che andava pazzo per Mengoni
In classe c’era un ragazzo che si chiamava come il personaggio del film, Andrea. Era un ragazzo speciale, con una piccola malformazione che gli impediva di parlare come gli altri, ma, nonostante le sue difficoltà, partecipava attivamente alle lezioni, non senza interventi anche sorprendenti. Quella mattina, era particolarmente su di giri perché la sera il suo papà e la sua mamma, lo avrebbero portato a Firenze, con suo fratellino, al concerto del suo cantante preferito, il cantante Marco Mengoni. Quando mi aveva riconsegnato la scheda non smetteva di ricordarmelo, tanto che avevo cominciato a prenderlo in giro cercando di sminuire il suo idolo.
La sera, stavo partecipando ad un incontro in parrocchia, quando una telefonata mi arrivò come una lama gelida che ti entra nella carne. “Sono il papà di Andrea, siamo disperati, nostro
figlio sta morendo”. A pochi metri dall’ingresso allo spettacolo, Andrea aveva avuto un arresto cardiaco. A me e a mia moglie era sembrato naturale correre a Firenze all’ospedale, ma quei cento chilometri erano sembrati interminabili. Siamo stati con loro quando sono venute meno tutte le speranze, quando gli abbiamo dato l’estrema unzione, quando è stata dichiarata la morte cerebrale, quando abbiamo fatto avanti e indietro per accompagnarli a casa perché mai avrebbero voluto che la terribile notizia arrivasse al fratellino magari via whats app… siamo stati con loro quando dopo lunghe ore di attesa hanno staccato il respiratore e quando c’è stata la decisione per la donazione degli organi. Siamo stati lì, ma io non avevo detto una parola, l’esperienza mi aveva insegnato che di fronte alla morte il silenzio è la prima risposta. Ma i genitori distrutti mi avevano incalzato.
Io ero l’insegnate di Religione, e mi avevano rovesciato addosso i giusti mille perché?!
Ma dalle loro bocche non era uscita alcuna bestemmia e mai avevano imprecato contro Dio. E poi Andrea gli aveva detto che io gli volevo bene, che lo trattavo per quello che era, non fermandomi sulle sue difficoltà. Anche per questo avevo trovato poche parole: «Non so dirvi perché, ma un cosa la so, che Andrea se n’è andato con la felicità nel cuore. La gioia di essere con la sua famiglia, e l’emozione per il concerto di Mengoni. Quest’ultimo istante di felicità Andrea si è portato nell’eternità» e ci eravamo abbracciati forte forte.
All’alba, mentre guidavo in autostrada per rientrare a casa, mi passavano per la testa mille cose. Ripensavo agli strani interventi di Andrea, ai suoi sorrisi, al suo sguardo così strampalato, così intenso, così comunicativo. Al rammarico di non avergli voluto sufficientemente bene e forse, di non averlo compreso come meritava. Alla strana coincidenza del film che avevamo visto la mattina. Al fatto che di li a poche ore avevo lezioni in un’altra scuola, con altri ragazzi e… avevo gli occhi gonfi e nessuna voglia di parlare…
Poi il mio pensiero era andato a quei genitori, babbo Luigi e mamma Angela, e ho pensato alla infinita dignità con la quale avevano affrontato questa tragedia, al profondo amore che li aveva spinti a parlare col fratellino Lorenzo per la morte di Andrea, al loro eroismo, in ogni scelta. E avrei voluto gridarglielo a squarciagola: «non vorrei mai essere nei vostri panni, ma siete certamente i miei eroi! Vi ammiro!».
Al perché avevano telefonato a me… già io ero il suo insegnante di Religione e quindi suo amico.
Costruiamo una relazione del tutto speciale
Come tutti i miei colleghi, ero quello che con i ragazzi costruiamo una relazione del tutto speciale, che va al di là della disciplina scolastica, una relazione che spesso va al di là dell’allievo stesso e che investe anche le nostre famiglie, e le famiglie di nostri ragazzi. Scuola, educazione, formazione, per noi di Religione, significano anche tutto questo!
Poi improvvisamente mi era venuto in mente la scheda che mi aveva consegnato quella mattina.
A scuola, all’intervallo, ero rimasto solo in classe, e avevo trovato il coraggio di sfilarla dal pacco delle altre schede e, quasi con un sacro pudore, gli avevo dato un’occhiata. Andrea aveva scelto di commentare una frase: “ci sono dei sogni che vanno oltre la morte…” e li i miei occhi si sono bagnati, e, così sicuro come ero che non bisognava nascondersi la realtà, non sono stato capace di leggere oltre.