Vorrei iniziare con una premessa e vorrei chiarire subito un elemento che oltre che teologico può, e deve, secondo me, diventare anche interpretativo: la storia ed il tempo non sono mai compiutamente totalmente buoni.
Non viviamo più nell’Eden, nel mondo di Dio in cui l’uomo eterno e “molto buono”(Gen 1,31) poteva sperare di vivere in totale armonia con se stesso e con il mondo; e nemmeno siamo arrivati al momento in cui Dio sarà “tutto in tutti” (1Cor 15,28), il momento in cui potremo vedere Dio faccia a faccia (1Cor 13,12), quello in cui la nostra umanità redenta da Cristo tornerà ad abitare il progetto di Dio, riconquistando la sua vera patria dopo una esistenza pellegrina. Ma d’altro canto non ci è nemmeno concesso dubitare del piano di Dio, della storia della salvezza, nullificando così la redenzione operata da Cristo guardando al mondo come avversario e nemico, luogo unicamente di male e di cattiveria. Detto molto in sintesi: se Dio non ha avuto schifo di questo mondo, ma nonostante tutto lo ha salvato, chi siamo noi per essere più schizzinosi di Dio? Lui ha tanto amato il mondo da mandare il suo figlio unigenito, come Salvatore; possiamo noi arrogarci il diritto di comportarci diversamente? Viviamo in un “frattempo”, in una realtà complessa, tra zizzania e grano buono. Guardare solo al seme cattivo forse ci fa correre il rischio che Gesù stesso paventava nella sua parabola (Mt 13,24-30), di distruggere il bene assieme al male.
Fatta questa premessa allora forse ci possiamo permettere di trovare nel nostro tempo e nel nostro mondo, elementi di bontà non solo occasionali, non solo eccezionali, o legati alla dimensione cristiana, ma anche nascosti, umili, oserei dire costitutivi e strutturali della realtà umana.
Mi permetto di consigliare, per una visione privata, ma eventualmente anche catechistica, un film che potrebbe essere anche visto come un “qualunque film hollywoodiano” (e certamente la traduzione italiana del titolo tende a concentrare l’attenzione unicamente sulla storia d’amore di due protagonisti), ma che nelle sue pieghe e nei suoi risvolti tende invece a suggerire altre dimensioni ed idee sicuramente più significative. La storia ci presenta due figure che scelgono l’attività di aiuto nelle varie tragedie epocali che l’umanità ha reso frequenti nel nostro tempo (anche se, dato il loro carattere periferico rispetto al centro del mondo ci fa parlare continuamente di “un secolo di pace”!!!). La loro vicenda si svolge tra Africa, Cambogia, Cecenia, in soccorso dei più disperati in un inferno di fame e sete, malattie e miseria che davvero va oltre i confini. Ma allora, sicuramente viene da pensare, dove troviamo il Paradiso? Se non guardiamo solo al contesto della narrazione, ma anche a ciò che fanno i vari personaggi (non solo i protagonisti) forse possiamo trovare una risposta.
Ciò che li muove non è solo l’amore reciproco che piano piano si disvela a loro stessi, ma davvero un “amore” che va oltre gli individui, che nasce anche in chi guarda il film, che fa porre domande e nega facili risposte, che li spinge a chiedersi disperatamente quali mezzi (leciti o non leciti) possano essere utilizzati per trovare una soluzione (fino a rubare un albero di trasmissione all’auto di un ministro per aggiustare la pompa dell’acqua, o peggio a scendere a compromessi con CIA e multinazionali per trovare fondi necessari. Anche in questi aspetti diventa chiaro il nostro vivere in un complesso “frattempo”). In poche parole diventa l’assumersi la responsabilità di un mondo che è comunque affidato all’essere umano (sia che lo guardiamo da una prospettiva cristiana sia che il nostro sguardo si fermi al limitare del cielo); una responsabilità che non si può arrestare alla enunciazione di astratti princìpi o comandamenti da osservare.
Viene qui immediatamente al nostro pensiero la famosa frase di Bonhoeffer: Evadere la colpa, può essere la più grave forma di peccato! Certamente questo Paradiso, per adesso, non è un luogo, né un tempo; è qui ed ora solo perché sta nel cuore di chi capisce che una Grazia ed una salvezza più grandi di noi ci sono state donate, che guarda (con Sant’Agostino) all’interno dell’uomo per trovare ciò che Dio ci ha messo, anche in chi non lo conosce o non lo prega. Davvero interessante nel film tutta la discussione sui nomi: “io non posso ricordarmi dei nomi – dice il medico protagonista – troppi sono i morti perché io possa sopportarne la memoria”. Se queste persone rimangono anonime diventa più facile sopportarne il peso. Come non ricordare la volontà di farsi un nome degli uomini di Babele (Gen 11) per concepire un progetto
alternativo a quello di Dio e all’altra parte il nome del Signore che diventa una assicurazione di eterna presenza e assistenza e per l’uomo? “Io sono con voi, io conosco il vostro nome e mi ricordo di voi, di tutti voi!”
Certamente è più facile contemplare le classiche figure dei santi e della grandi personalità che sicuramente vengono alla mente di tutti, San Francesco, Madre Teresa, Gandhi, Martin Luther King… Anche su di loro film e fiction possono essere ricordate.
Ma che cosa dicono queste figure oggi, non solo ai nostri figli, ma anche a noi? Che ci sono stati nella storia degli esseri eccezionali, che si potrebbe certamente fare qualcosa, ma io non sono come loro, ma chi me lo fa fare? Io non potrei riuscirci. Da questa storia invece emergono alcuni personaggi, la cui statura morale non è perfetta, non è assoluta (siamo tutti perfettamente in grado di trovare delle pecche nel loro comportamento e nelle loro scelte) ma sono stati capaci di andare oltre i loro confini ed i loro limiti. Senza scuse o giustificazioni in un continuo interrogare se stessi, sacrificando carriere e soldi, fino a mettere a repentaglio anche la loro stessa vita; fino a donarla per amore!
Certo, il limite fondamentale rimane la morte che nella proposta cinematografica viene superata soltanto da un “sogno” (più precisamente Il sogno di Robert Schumann); noi abbiamo una certezza in più: qualcuno prima di noi, e per noi, ha abbattuto anche questo ultimo confine! Per questo noi, noi tutti, abbiamo dentro un Paradiso!
Tag: attenti al mondo che gira
BEYOND BORDERS: UN INFERNO O UN PARADISO?
Avengers Endgame – Quando il sacrificio di pochi aiuta la resurrezione di molti
L’ultimo film della saga degli Avengers, Avengers Endgame, è sicuramente il più denso di significati da utilizzare anche in ambito oratoriale. La storia ha il suo inizio nel film precedente in ordine di tempo, Avengers Infinity war, dove il malvagio “Thanos”, il cui nome deriva proprio da Thanatos, la morte nella mitologia greca, riesce a sterminare metà della popolazione dell’Universo con un solo schiocco di dita. E’ la fine di personaggi noti dell’universo Marvel, Spiderman, Doctor Strange ecc… che muoiono dissolvendosi improvvisamente. Per la metà della popolazione che sopravvive la vita non sarà più la stessa: in ogni famiglia infatti qualcuno è scomparso e persino gli animali che popolavano i vari pianeti hanno subito la stessa sorte, lasciando i mondi più silenziosi e tristi. Lo scoraggiamento, lo sconforto, il senso di fallimento sembrano avere la meglio sul piccolo gruppo rimasto dei vendicatori. Qualcuno si lascia andare e perde la sua dignità, qualcuno resta in attesa di qualche evento che possa dare un senso a quello che è successo. Lo stesso Thanos, raggiunto il suo scopo e cioè rimettere in equilibrio la bilancia dell’esistenza dell’intero Universo, torna ad una vita semplice, rurale, lontano da tutto e da tutti. Ma la storia non finisce qui. La morte, come nella visione cristiana, non ha l’ultima parola su tutto. Inizia a rinascere la speranza che qualcosa possa cambiare, che insieme si possa tornare a progettare un futuro diverso da quello che sembrava ormai scritto. E così il resto degli Avengers si organizza per compiere un ultimo tentativo di riportare in vita coloro che si erano dissolti. Ma tutto questo ha un prezzo, ognuno deve mettere da parte i propri particolarismi, le proprie ritrosie e fare un gioco di squadra. Insieme si vince, da soli si perde. Sembra questo il messaggio che potrebbe essere interessante sviluppare anche con i nostri ragazzi a partire dalla visione del film. Ognuno ha un compito da svolgere, più facile o più difficile, ma sempre secondo le possibilità che ci vengono date e il lavoro di ciascuno concorre al bene di tutti. Anche il sacrificio isolato della Vedova Nera, che darà la sua vita per recuperare una delle sei gemme dell’infinito, non basterà a scongiurare la vittoria di Thanos. Ne servirà un altro di sacrifici, questa volta quello di Iron Man, che andrà incontro al suo destino sapendo che quello è l’unico modo per salvare l’umanità. Due morti, due sacrifici per far risorgere definitivamente tutti coloro che erano morti. E qui le analogie con la visione cristiana della resurrezione abbondano, ma anche la forza della prima comunità cristiana, che non si è lasciata sopraffare dalla disperazione per la perdita del loro maestro e Signore piuttosto si è fatta guidare dallo Spirito verso una nuova vita.
Luca Paolini
“LEO E BEATRICE” OVVERO “BIANCA COME IL LATTE, ROSSA COME IL SANGUE”
di Luigi Cioni*
Non so se sto peccando di presunzione nell’affermare di aver capito qualcosa, ma a partire esclusivamente dalla mia esperienza, mi pare
di poter dire che se crediamo, in una qualsiasi attività educativa, di poter procedere in modalità deduttiva, di poter fare affidamento cioè su
idee, astratte, ben assimilate e consolidate, e da lì costruire la nostra prassi e la nostra comunicazione pedagogica, ritengo che saremo destinati ad un inesorabile fallimento.
Cerco di spiegarmi meglio, facendo riferimento a me stesso. La mia generazione si riconosceva in alcune idee, aderiva intellettualmente
a delle proposizioni che ritenevamo convincenti, quando non addirittura ovvie e indiscutibili, e da lì riuscivamo a trarre un dover-essere
che informava la nostra vita, pur tra errori e fallimenti, ripartenze e successi. Questo anche nella nostra ricerca di essere cristiani: il punto
di partenza era la fede! Da essa, più o meno consapevolmente, discendevano le nostre scelte che volevano, o almeno ci provavano, essere
coerenti con ciò che affermavamo con le parole. Quindi: “l’amore per il prossimo”, la “cura”, perfino la preghiera e la meditazione.
Quanto questo fosse convinzione o tradizione, motivazione interiore o posa, per alcuni aspetti è stato dimostrato dall’incedere del tempo
che, inesorabile, ha mostrato, nei nostri volti riflessi nello specchio, non solo le immancabili righe, ma come novelli Dorian Gray, anche le
nostre contraddizioni ed il nostro io più autentico (o forse umanamente inautentico).
Credo che da questo processo la generazione attuale si sia più o meno consapevolmente emancipata e, anche quando chiediamo conto ai nostri ragazzi e giovani della loro capacità di dono, di altruismo, di charitas, di cura e di agape, come necessità di coerenza di fede, forse ciò che ci sapranno, o vorranno restituire, altro non sarà che un comportamento, un atteggiamento. Scelte, fatte in nome di moto interiore, di una empatia che ha mutato la loro vita, magari anche in maniera sconvolgente, senza che neppure sappiano elencarne i motivi razionali. Quindi direi, in modo induttivo, per certi versi.
Si parte dall’esperienza, dal desiderio, dalla “voglia”, si arriva alla scelta esistenziale e, forse solo dopo, alla consapevolezza ideale.
Questo processo sta alla base di un libro che tutti abbiamo letto, magari con un po’ di sufficienza e di paternalismo (soprattutto noi anziani),
ma da cui non possiamo dire di non essere stati, almeno in parte, toccati: Bianca come il latte, rossa come il sangue, romanzo di esordio di
Alessandro D’Avenia (Mondadori, Milano 2010) Mi riferisco al libro, più che al film che ne è stato tratto (Italia, 2013), per l’immancabile semplificazione che spesso comporta il passaggio sulla pellicola di un’opera scritta, ma soprattutto perché la scelta di Leo, protagonista della storia, trova nel testo scritto una più accurata espressione.
La scelta della cura, dell’accompagnamento, della assunzione del dolore altrui come proprio, che nasce dall’infatuazione giovanile per una ragazza, lentamente si trasforma e diventa sempre più una scelta di consapevolezza. Il ragazzo è costretto a guardarsi dentro, a trovare la fonte del suo dolore, e al contempo della sua volontà di non sottrarsene, come invece la sua istintività di superficiale desiderio di sopravvivenza gli suggerirebbe. Questo processo lo porta a scoprirsi, alla fine, diverso. Diverso perché più capace di distinzioni, di maggiori profondità, di gioia che non derivi solo dal banale divertimento, ma da sorgenti più antiche e autentiche.
In poche parole capace di carità. Capace di amore! Una capacità che non gli deriva dalla adesione intellettuale a delle categorie concettuali,
ma dallo sguardo di Beatrice. Dal suo volto, in cui Leo desidera trovare, o forse solo intravede, la sua personale possibilità di essere un di più,
un altro.
Da tutto questo nasceranno anche le idee, la consapevolezza, le scelte? Nessuno lo sa! Nemmeno lui. Sa solo che ha sentito un richiamo, una vocazione, diremmo noi più vetusti. Per adesso ci sono le domande. Le risposte verranno. Forse anche solo un nuovo amore, più consapevole, magari educato da una vita condivisa.
Tutti pazzi per Strangers Things
*di Luca Paolini* Strangers Things è sicuramente la serie cult del momento almeno tra gli adolescenti. E’ stata da poco pubblicata su Netflix la seconda stagione nella quale la storia di “Undici” e dei suoi amici prosegue tenendo alta la tensione fino alla fine delle puntate. Ma di cosa si tratta e perché parlarne in una rivista di educatori. Per prima cosa il fatto stesso che tutti o quasi gli adolescenti la guardino ci impone quantomeno di sapere di che cosa parli e a grandi linee conoscerne i pregi e i difetti. La serie vietata ai minori di 14 anni per la forza di alcune scene, si svolge negli anni ’80 in un paesino fittizio dell’Indiana, Hawkins, dove un ragazzino scompare e al suo posto compare invece una ragazzina più o meno coetanea che possiede poteri extrasensoriali, muove gli oggetti, entra in contatto con le persone a distanza. La ragazzina si chiama, o meglio viene chiamata “Undici” dal numero che ha tatuato su un braccio: si viene in seguito a sapere che da piccola era stata sottoposta ad esperimenti scientifici che hanno sviluppato i suoi attuali poteri. Il numero tatuato sul braccio ci riporta però alla mente i campi di concentramento nazisti e gli esperimenti che il dott. Mengele portava avanti sui bambini alla ricerca di una purezza della razza. I poteri di Undici frutto di questi esperimenti, finiscono accidentalmente per aprire un portale per il “sottosopra” che gli sceneggiatori avevano chiamato in origine “inferno”, dal quale nelle due stagioni escono di volta
in volta creature spaventose. I cinque amici che nella seconda stagione diventano 6 in nome di una amicizia che emerge con forza in tutte e due le serie, lottano per aiutarsi a vicenda e sconfiggere queste creature. Ma perché questa serie è diventata così presto un successo planetario, tanto che Netflix le ha anche dedicato un “Oltre Strangers Things”, una serie di puntate dove i giovani attori vengono intervistati e accompagnano così la lettura dei telefilm? Il successo è dovuto ad un mix di fattori sicuramente, innanzitutto l’alone di mistero che accompagna entrambe le stagioni, il clima quasi da horror anche se si horror non si tratta perché le scene sono molto edulcorate, forse per renderlo proprio adatto ad un pubblico di adolescenti. Ma la forza di questa serie sta forse nel legame che si instaura tra i giovani protagonisti come dice uno di loro nella prima stagione:
Un amico è qualcuno per cui faresti tutto, gli presti le cose fighe che hai, tipo fumetti e figurine. E mantiene sempre le promesse. Soprattutto se fatte con lo sputo. Una promessa con lo sputo significa che non tradisci mai la parola data. È un vincolo.
E ancora di fronte ai fatti sconvolgenti che accadono loro: Se stiamo diventando pazzi, allora diventiamo pazzi insieme.
Lo si capisce bene anche nella seconda stagione che ha come refrain la frase “Gli amici non mentono”, che di tanto in tanto ricorda ai telespettatori che l’amicizia non è fatta di bugie e sotterfugi anche se spesso questo avviene a minare la solidità dei loro rapporti. Ma che cosa emerge inoltre da questa serie e che fa molto pensare: l’assenza della famiglia. A parte la mamma di Will che lotta per riavere suo figlio libero dal potere del “sottosopra”, il resto delle famiglie risultano assenti, prese dalle loro manie quotidiane (i gatti, le cure di bellezza ecc…) se non addirittura violente. La famiglia non esiste e forse gli sceneggiatori hanno voluto di proposito lasciare questi ragazzi soli alle prese con un mondo che gli adulti non conosceranno mai, proprio per fare presa su un pubblico giovanile. La forza che sprigiona dalla serie e fa breccia nel mondo degli adolescenti è dunque la solidarietà tra pari, in un momento della vita in cui cominciano i primi problemi in famiglia, quando si sente che gli amici cominciano a diventare qualcosa di fondamentale, specie appunto se la famiglia alle proprie spalle non esiste. Un argomento sul quale si può riflettere anche con i ragazzi nei gruppi e che forse proprio partendo da questa serie così vicina a loro può suscitare dibattiti e interrogativi importanti per la loro crescita umana anche spirituale.
LA FORZA STA CON IL GRUPPO
Una serie tra horror, misteri e legami tra adolescenti che tiene con gli occhi incollati agli schermi televisivi i nostri ragazzi. Una serie dove gli adulti praticamente non ci sono e il gruppo degli amici diventa il luogo più importante per gli affetti e la crescita personale. Tanti argomenti da poter trattare e su cui riflettere.
gennaio 2018
A.D. La Bibbia continua. La nascita della Chiesa in una serie avvincente
*di Luca Paolini* La particolarità di questa serie, a differenza delle fiction italiane, è quella di catturare subito l’attenzione dei ragazzi, abituati ormai alla suspense e alle trame avvincenti. La fine di ogni episodio lascia sempre la porta aperta al nuovo,
cosicché è facile che i ragazzi si appassionino alla sua visione. Le ambientazioni sono molto realistiche, le musiche incalzanti, Gerusalemme ricostruita alla perfezione in 3D, l’Angelo che rotola la pietra del sepolcro e libera Pietro e Giovanni dalla prigione
somiglia molto ai personaggi dei film Marvel. Ma al di là degli effetti speciali e della scenografia, la serie TV è ricca di spunti di riflessione per i ragazzi, perché mostra da una parte la debolezza degli Apostoli ma dall’altra la loro
grande fede di fronte alle difficoltà alle persecuzioni e alla morte. Ogni tanto vengono citate dai vari personaggi alcune profezie dell’Antico Testamento (es: Isaia 53,9; Deuteronomio 21,22-23) che possono essere riprese, spiegate, corrette se necessario e utilizzate per una discussione di gruppo.
Chiaramente le libere interpretazioni dello sceneggiatore, specialmente quello che riguarda la storia di Pilato, del Sommo Sacerdote e degli imperatori con le loro improbabili visite in Palestina, sono molte, ma per il
resto la serie rimane abbastanza fedele al testo degli Atti degli Apostoli. In particolare vengono delineate le vicende di Pietro, Stefano, Filippo in Samaria e Paolo. La conversione di Paolo è ben rappresentata, dal furore cieco di
distruzione del cristianesimo fino alle cecità dovuta all’incontro con Cristo sulla via di Damasco. Consapevole della sofferenza alla quale andrà incontro nella missione, Paolo decide comunque di seguire Gesù: “Sai, (è Paolo che parla con Pietro n.d.r.) quando Anania è venuto a casa mia, mi ha detto che lo aveva inviato Gesù. Aveva detto ad Anania che avrei sofferto… Che avrei sofferto per il suo nome. Non mi perdonerò mai per quel che ho fatto, ma ho paura…
Ho così paura che il dolore che sento adesso è nulla in confronto a quello che verrà.
Sarebbe più facile scappare, ma non posso farlo”. Ne emerge un quadro di una comunità provata dalla persecuzione
si, ma animata dalla forza dello Spirito a compiere scelte radicali in nome di Gesù e del Vangelo. Se pensiamo ad una generazione, come quella dei nostri giovani, liquida, incapace di scelte definitive per la propria vita, e che spesso relega la fede in un piccolo angolo della propria esistenza, si capisce allora come la testimonianza dei primi cristiani
possa costituire un esempio per i ragazzi sia di amore fraterno, ma anche di passione nell’annuncio del Vangelo. Sono molto belle le scene nelle quali gli Apostoli si fanno vicini alla sofferenza e come Gesù prima di loro, si chinano
sulle ferite dell’uomo per sanarle. Anche la scena del capro espiatorio sul quale venivano caricati tutti i peccati compiuti durante l’anno, ci da modo di spiegare che Gesù prende il posto del Tempio e dei suoi riti e si carica di
tutti i peccati dell’umanità, anche dei non giudei. La serie termina infatti con la decisione di Pietro di battezzare Cornelio, il centurione romano che aveva ricevuto la visita dell’Angelo, evento che fa da preludio al distacco del Cristianesimo dall’Ebraismo e all’apertura della missione ai Gentili. La scena finale dell’ultima puntata rimane sospesa e lascia intendere che molto probabilmente la serie avrà una seconda stagione che, visto il successo della prima, speriamo arrivi presto.
UN ESEMPIO CHE VIENE DAL PASSATO
I personaggi di questa serie tv, provati dalle persecuzioni e animati da scelte forti, possono rappresentare un ottimo esempio per i ragazzi della nostra epoca così liquida e precaria. Sarebbe significativo parlarne insieme, prendere spunto da alcune scene e da alcune citazioni per animare un dibattito… magari in attesa che producano la seconda stagione della serie.
La profondità della scimmia nuda
*di Edoardo Volpi Kellerman* Un brano scanzonato, divertente e coinvolgente. Sound da ballare, testo da meditare.
Ecco la ricetta del successo di Occidentali’s Karma di Francesco Gabbani, canzone vincitrice del Festival di Sanremo 2017.
Ma le polemiche sono accese, sul Web. Due tifoserie si affrontano: una che accusa il testo di “finta profondità”, di essere un’accozzaglia di riferimenti a caso, da Desmond Morris (1) a William Shakespeare, da Eraclito a buddismo e alla filosofia orientale; l’altra che, proprio appoggiandosi a tali citazioni, sottolinea le possibili chiavi di lettura del testo. Testo che intende ironizzare sulla superficiale ricerca di “spiritualità” dell’uomo occidentale, spesso rivolto al pensiero orientale senza veramente comprenderlo e cercando anzi di “indossarlo” a suo piacimento, come un abito alla moda.
Chi scrive non intende appoggiare nessuna delle due tesi, ma piuttosto analizzare il fenomeno da un punto di vista più sociologico e musicale. Francesco Gabbani non è nuovo a questa formula, che trova fra le sue radici “Sono solo canzonette” di Edoardo Bennato e “L’albero da trenta piani” di Adriano Celentano (con il quale Gabbani ha collaborato, fra l’altro), e secondo qualche critico musicale anche diverse canzoni di Franco Battiato.
Si tratta di uno stile comunicativo che nasconde una volontà didascalico-provocatoria, di denuncia mascherata col sorriso.
Nel 2016 il singolo dell’ultimo disco “Eternamente ora” di Gabbani già recitava: “Elaboriamo il lutto con un amen… dimentichiamo tutto con un amen”. Parole dure, soprattutto per chi crede.
Anche nell’ultimo successo Gabbani affronta argomenti delicati, passando dall’evoluzione umana (il libro di Morris nega una rappresentazione dell’uomo attuale come punto d’arrivo, ponendolo all’interno di un sistema complesso in continuo mutamento – il Panta Rei citato nella canzone) alla ricerca spirituale che spesso sconfina nella filosofia New-Age.
Occidentali’s Karma descrive un’umanità spersa, caduta nella tentazione delle “risposte facili” e della “tuttologia del Web”, tesa fra istinti primordiali e una ricerca disperata di un senso della vita, ma la narra con il ritmo di un tormentone estivo, arrivando così a rappresentare la stessa contraddizione fra contenuto e forma di cui si fa critico e portavoce allo stesso tempo.
È la modernità, gente!
Certamente, la canzone riesce a stimolare l’interesse del grande pubblico per tematiche in genere riservate ad appassionati o addetti ai lavori, tanto che anche in una puntata di Radio3scienza2 è stata citata per parlare del libro di Morris con il filosofo ed epistemologo Telmo Pievani.
Ma finora in pochi hanno tenuto conto di un’altra incognita dell’equazione, forse – anzi certamente – la più importante: i ragazzi.
I ragazzi vengono trascinati dal ritmo della canzone, affascinati dall’armonizzazione semplice ma non banale (anche se in pochi se ne accorgono), catturati dall’arrangiamento ben riuscito e soprattutto dall’olè posizionato strategicamente nel testo. Ma quanti di loro hanno le chiavi di lettura necessarie ad approcciarne l’argomento, a comprendere ed elaborare i temi trattati?
La questione ricorda un po’ quella dei Device digitali.
Spesso noi educatori ci si allarma – giustamente – per i rischi insiti in un utilizzo non consapevole dell’enorme “potere” comunicativo che i moderni mezzi tecnologici offrono. La soluzione più semplice (la risposta facile, direbbe Gabbani) potrebbe sembrare quella di vietarne l’uso, o comunque di limitarlo decisamente. Contribuendo però, in questo modo, ad allargare le distanze generazionali e ottenendo spesso l’effetto opposto.
Anche in questo caso abbiamo un’ottima occasione per trasformare un momento di divertimento magari un po’
superficiale in un braimstorming, uno scambio di riflessioni e di idee su temi “alti” come la ricerca della spiritualità, la relazione fra il linguaggio simbolico del messaggio biblico e le scoperte della scienza e, perché no, la nostra relazione con il Web e i “suoi” messaggi più o meno positivi, più o meno autentici.
Un’ulteriore dimostrazione del fatto che per aprire un reale dialogo occorre sempre andare “verso” i ragazzi, magari partendo da un “tormentone” come Occidentali’s Karma – a quanto pare avrebbe dovuto inizialmente avere il titolo in latino, Occidentalis Karma – che ha comunque il merito di stimolare discussioni anche approfondite su argomenti nei quali, chiaramente, noi per primi dobbiamo essere ben preparati.
(1) Desmond Morris, zoologo ed etologo inglese nato nel 1928, è autore di libri di divulgazione scientifica fra i quali il più noto è “La scimmia nuda. Studio zoologico dell’animale uomo” uscito nel 1967. Il libro ha avuto molto successo, analizzando dal punto di vista di un etologo differenze e similitudini fra il comportamento umano e quello dei primati. Ultimamente è stato criticato da per l’erroneità di alcune ipotesi e per il tono “eccessivamente divulgativo”.
Il volume, dopo Sanremo, è risalito nella classifica dei libri più venduti.
Bompiani, 2003, ISBN 978-88-452-4898-6
(2) Puntata del 13 febbraio, disponibile all’indirizzo su www.radio3.rai.it
Westworld – Dove tutto è concesso
*di Luca Paolini*
“Westworld – Dove tutto è concesso” è la nuova serie TV lanciata in autunno dalla statunitense HBO, la stessa che ha prodotto il popolarissimo “Trono di Spade”, e che forse ci accompagnerà con diverse stagioni fino al 2020. È una serie sulla quale è stato investito molto in termini anche di attori, un magistrale Anthony Hopkins è infatti il personaggio chiave di tutta la narrazione. La storia in realtà non è altro che un remake di un vecchio film di fantascienza uscito nel 1973 dal titolo “Il mondo dei robot”, interpretato da Yul Brynner. È una storia che non lascia indifferenti, che fa pensare, che offre spunti di riflessione sulla natura umana e sul pericolo di un mondo dove la morale non esiste e ognuno può fare ciò che vuole. Proprio per questo è più adatta ai ragazzi più grandi, comunque maggiorenni, che opportunamente guidati possono avere la capacità critica di riflettere e di prendere le distanze da quello che vedono. Non è invece assolutamente proponibile sia per i contenuti che per le scene, ai ragazzi più piccoli. Il tutto si svolge infatti in un parco attrazioni del futuro, Delos, costruito nel deserto, sullo stile del Far West e popolato da centinaia di androidi, le “attrazioni”, uomini e animali, realizzati alla perfezione e capaci di interagire con i visitatori in modo del tutto naturale. Ogni abitante del parco, ogni attrazione appunto, è programmato per ripetere sempre la stessa azione, parte di una trama più complicata che lega tutte le attrazioni tra di loro, in un loop temporale senza fine. I visitatori interagiscono con le storie create a tavolino dai programmatori, sottoponendo gli androidi ai loro voleri e sfogando su di loro gli istinti più bassi che l’uomo riesca a immaginare. Niente pericoli per i visitatori, non possono essere uccisi mentre agli androidi è concesso dimenticare, quando una volta uccisi, la loro memoria verrà resettata come un hard disk del computer. Ma nel loro codice di programmazione esiste come un bug, una falla, qualcuno vi ha inserito una voce, un richiamo, la possibilità, che si sviluppa nel tempo, di ricordare ciò che hanno vissuto nelle vite precedenti e quindi tutto ciò che gli uomini hanno inferto loro. Vita dopo vita, esperienza dopo esperienza gli androidi cominciano quindi a ricordare pezzi della loro vita passata e perciò a prendere coscienza di essere creature “fabbricate” dall’uomo e perciò non veri esseri umani e soprattutto non liberi. In questo senso una prima riflessione che potrebbe essere oggetto di discussione in gruppo è proprio la differenza tra un Dio che ci ha creati liberi e l’uomo che invece assoggetta gli esseri che crea, ma anche gli stessi esseri viventi della terra, gli animali ad esempio, al suo bieco volere.
Il risultato è il mondo nel quale oggi ci troviamo a vivere dove la ricerca del benessere, dello sviluppo economico calpesta i diritti degli uomini e sconvolge gli equilibri della natura. Ma si possono anche aprire riflessioni per capire fino a dove l’uomo può arrivare nel creare nuove forme di vita o quanto la Scienza si può spingere in avanti soprattutto quando a guidarla non c’è un etica, ma solo il desiderio sconsiderato di progredire a tutti i costi o peggio ancora il profitto. Si potrebbe partire ad esempio facendo vedere la prima puntata della serie, nella quale ci sono già degli spunti anche a carattere religioso, come quando ad esempio il creatore del parco attrazioni, Ford, dice: …ovviamente, siamo riusciti a scioglierci dai lacci dell’evoluzione, no? Siamo in grado di curare ogni malattia, mantenere in vita anche il più debole fra noi, e… magari, un bel giorno… faremo resuscitare i morti. Richiameremo Lazzaro… dalla tomba. Sai cosa significa questo? Significa che abbiamo finito. Che non potremo fare meglio di così.
Ma tutta la serie contiene riferimenti più o meno espliciti alla sfera filosofico-religiosa fino a richiamare alla memoria le vecchie teorie sulla “mente bicamerale”, secondo la quale l’uomo della Bibbia che aveva le visioni di Dio in realtà parlava con se stesso o meglio con quella parte del proprio cervello che è alla base della schizofrenia.
A lui (ad Arnold co-creatore del parco attrazioni n.d.r. – è sempre Ford che parla) non interessava una parvenza d’intelletto o di facoltà mentali. Voleva creare la coscienza. La immaginava come una piramide. Memoria, improvvisazione interesse personale. E in cima? Non c’è mai arrivato. Ma aveva una vaga idea di cosa potesse essere, basata su una teoria della coscienza chiamata “la mente bicamerale”. L’idea secondo cui gli uomini primitivi credevano che i pensieri fossero la voce degli dei. Arnold aveva costruito una versione di quella cognizione, in cui le attrazioni sentivano la propria programmazione come un monologo interiore. Con la speranza che, col tempo la loro voce avrebbe preso il sopravvento. Voleva favorire la nascita della coscienza. Ma Arnold non aveva preso in considerazione due cose. Primo, in questo posto l’ultima cosa che vuoi è che le attrazioni siano coscienti. E secondo, l’altro gruppo, quello che considerava i propri pensieri la voce degli dei. I matti appunto.
C’è un altro aspetto importante poi che attraversa come un filo rosso tutta la narrazione. È quello del peccato legato ad un mondo “non reale”, pensiamo anche alla rete oggi, che fa emergere gli istinti più bassi e perversi dell’animo umano. La libertà che Dio ci ha dato senza una guida, senza l’amore che illumina ogni cosa, porta l’uomo a compiere le azioni più aberranti, sia che queste siano compiute nella vita reale sia che appartengano al mondo virtuale. La riflessione finale dunque è che all’uomo non tutto è concesso, come invece afferma il sottotitolo della serie tv, che ad un certo punto occorre fermarsi, dire basta, cambiare strada appunto, “convertirsi”, per seguire un volere più alto che non è il nostro. Alla fine della serie lo spettatore non può che parteggiare per le attrazioni, soprattutto quando prendendo coscienza della loro situazione affermano che “…questi piaceri violenti finiscono in violenza…”, la violenza chiama violenza che è poi il cuore del messaggio cristiano nel quale Gesù rinuncia a questa logica e offre la sua vita per spezzare questa spirale che da sempre domina l’umanità.
TRA REALTÀ E FANTASCIENZA
Tra realtà e fantascienza la serie tv “Westworld” porta alla ribalta le domande fondamentali dei nostri giorni. Fino dove si può spingere l’uomo e la scienza a creare nuove forme di vita? Tutto è concesso oppure occorre fermarsi? Quanto conta la coscienza e la morale nelle azioni umane? La serie televisiva è molto più complessa di quanto si pensi e le immagini sono spesso troppo forti per un pubblico di adolescenti, ma può valere la pena guardarla se suscita spirito critico e invita a riflettere.
Serie Tv Addicted?
*di Luca Paolini*
C’è una importante novità nel panorama quotidiano pre-adolescenziale e adolescenziale degli ultimi due anni in Italia. L’arrivo della Serie Tv Mania che già oltreoceano imperversa da molto tempo. Mentre nel passato si potevano guardare le serie Tv scaricandole illegalmente dal web (e non tutti i ragazzi erano in gradi di farlo) oppure abbonandosi ad uno dei canali satellitari più diffusi, da ottobre dello scorso anno la mania delle serie Tv è esplosa grazie ad un nuovo cult, la Tv on demand via internet, per capirci i vari Netflix, Infinity Tv, Now tv ecc… La Tv commerciale ha trovato un nuovo mercato forse proprio nei giovani con scarse possibilità economiche e con gusti nuovi. Di fatto i costi ridotti di questi servizi (circa 8-9 euro al mese), la possibilità di vedere i diversi contenuti sui vari devices (TV, computer, tablet e smartphone), e la facilità di recesso con un solo click, hanno proprio facilitato il successo di questo nuova forma di televisione che è sicuramente più vicina al mondo giovanile e ai suoi linguaggi.
Come educatori non possiamo non interrogarci su un fenomeno nuovo, che forse va capito meglio e utilizzato laddove è possibile proprio ai fini educativi. Cominciamo con alcune considerazioni di carattere generale. I classici film costituivano e costituiscono ancora oggi, qualcosa che inizia e finisce, per certi versi il paradigma della vita di ogni uomo sulla terra. Il famoso “The End” dopo una bella e intensa visione di un film fa capire che tutto ha una fine e con questa fine (nel nostro paradigma la morte) bisogna prima o poi confrontarsi. Le serie Tv invece sono diverse: le serie Tv non finiscono, o meglio la loro fine è rimandata spesso molto avanti nel tempo, in alcuni casi forse non arriverà mai, perché la serie sarà interrotta dalla produzione per motivi di budget. Ma in generale si parla a volte anche di 10 o più stagioni e considerando che ogni stagione è composta da un numero variabile di episodi si può arrivare anche alla visione di 100 episodi di una sola serie.
E’ chiaro allora che i personaggi, le storie, i sentimenti che accompagnano la visione di una serie Tv accompagnano i ragazzi per un tempo spesso molto lungo, diventano parte della loro vita, delle loro giornate, del loro modo di pensare, delle loro opinioni. Ma non solo… A differenza dei film, anche di quelli che fanno parte di una saga, il tempo di attesa per vedere come andrà a finire, quel gusto di aspettare che significa educarsi alla pazienza, è ridotto al minimo. Le serie Tv sono spesso già pronte e gli episodi fruibili anche in rapida sequenza (la stessa Tv non appena finisce un episodio passa direttamente all’anteprima del nuovo). Potremmo definirlo il consumismo delle immagini e delle storie ma anche l’illusione dell’immortalità tipica del nostro mondo, che edulcora tutto e che somministrando dosi quotidiane di gioie effimere, impedisce di pensare alla finitezza e alla fragilità di quel vaso di creta, che è l’essere umano. Ma è da considerare anche il furto del tempo che viene sottratto allo studio, agli amici, alla famiglia, a Dio. E’ questo forse il pericolo se di pericolo si tratta, di questo nuovo fenomeno mediatico da non sottovalutare nella nostra azione educativa.
Si può parlare allora di dipendenza da Serie Tv? In molti casi si tratta di vera e propria dipendenza, sia per il tempo passato davanti allo schermo, sia per l’intensità e l’importanza che la serie Tv assume nella vita dell’adolescente. L’Educatore però non può assumere un atteggiamento censorio nei confronti di un fenomeno che è potente e molto trend. Il rischio è quello dell’incomunicabilità, della chiusura e quindi del fallimento dell’azione educativa stessa. Occorre a mio avviso cominciare a parlare con i ragazzi di quanto le serie Tv sono importanti nella loro vita, quanto tempo dedicano alla loro visione; che ruolo rivestono nei loro comportamenti, nel loro modo di pensare e di guardare a certe problematiche esistenziali, morali, le scelte e i comportamenti dei personaggi a loro cari. Si può anche decidere ad esempio di guardare insieme alcuni episodi di una serie Tv decisa dall’educatore stesso oppure dai ragazzi, per mettere in evidenza luci e ombre di questa nuova forma di comunicazione o viceversa utilizzare una di queste serie Tv per affrontare un determinato argomento. Nei prossimi numeri della rivista cercheremo di analizzare alcune di queste serie Tv per trovare spunti utili nel nostro lavoro con i ragazzi. Nel frattempo è bene cominciare a documentarsi per entrare in questo mondo con la saggezza e l’esperienza di persone adulte che hanno desiderio di capire e non di condannare. Anche qui la misericordia deve essere il faro che guida le nostre azioni.
DIPENDENZA?
Si può parlare di dipendenza da serie TV? in molti casi si, se non altro per il tempo trascorso da tanti giovani davanti allo schermo. Ma l’educatore non può assumere un atteggiamento censorio nei confronti di questo fenomeno, deve anzi cercare di capire che ruolo giochino questi programmi nella vita dei ragazzi e aiutarli a “leggere” le serie tv in modo intelligente e critico, magari proprio guardando qualche episodio insieme a loro.