Oratorio l’amico geniale

*di mons. Simone Giusti*

Vivere l’oratorio come gente che esce dall’oratorio per cercare chi ha bisogno di pane e di amicizia

Quale risposta dare ai giovani e alla loro voglia di vita bella, buona, libera, lieta? L’Oratorio!

C’è chi li invita ad accontentarsi. E c’è chi li chiama a fare una vita all’attacco: lotta, compra, accumula! Non pensare né al prima né al dopo, né agli altri né a Dio ma a godere il più possibile.

 

E i cristiani? Cos’hanno da dire?

La comunità cristiana è incaricata di offrire – con discrezione, con presenza quotidiana – la risposta di Gesù. È Gesù la risposta per una vita felice che sa prendersi cura di sé, degli altri, dei poveri, del creato. E l’oratorio è l’intuizione geniale di don Bosco e di generazioni di preti e di educatori, è la risposta che la Chiesa ha offerto a generazioni di ragazzi e ragazze per ascoltare la risposta di Gesù. L’Oratorio è la risposta più diffusa, la più vicina a casa, la più accessibile, dove tutti sono benvenuti. Il dono della vita eterna non si può comprare come un prodotto. E la risposta di Gesù non si trova al supermercato, fra ansiolitici e antidepressivi, droghe e integratori. Quella risposta la si può incontrare in oratorio. Che davvero è una delle forme più geniali che la comunità cristiana ha creato per dare a tutti un luogo dove essere accolti, giocare, fare amicizia, pregare, scoprire il senso della vita. Vogliamo fare degli oratori un cantiere della Chiesa dalle genti: tutti devono sentirsi benvenuti, da qualunque Paese vengano. Ebbene: noi vogliamo dare vita nuova e fresca all’oratorio, perché lì i giovani, tutti i troviamo la risposta.

 

Ma per fare questo è necessario formare una nuova generazione di animatori di Oratorio i quali lo vivano come gente che sa coinvolgere nelle sue attività quelli che sono nel bisogno, da qualunque Paese vengano e sa dare pane, compagnia, amicizia a quelli che ne sono privi.  Tre parole ai nuovi animatori: Gesù, correre, vivere opere di misericordia! Seguire Gesù. Ascoltarlo. Diventare suoi amici. Vivere la vita con slancio appassionato. Viverla come vita donata praticando le opere di misericordia in Oratorio per tutti i giovani del quartiere.

Il tempo delle scelte l’importanza educativa e sociale dell’oratorio oggi

*di Monica Calvaruso*

L’oratorio non è solo un luogo, un cortile, una struttura in cui si svolgono varie attività, oggi è diventato un progetto educativo che comprende la catechesi, la preghiera, il doposcuola, lo sport, il gioco, la formazione, i laboratori, le attività musicali, il teatro, il grest: è una realtà ecclesiale luogo di incontro e crescita umana e spirituale. L’oratorio è evoluto ed è  uno strumento pastorale e vivo dell’educazione, che, come afferma don Michele Falabretti direttore nazionale della Pastorale Giovanile, è medicina della Chiesa, esercizio di cura e di comunità: diviene la cosa più bella del mondo se  ben progettato, se la comunità è presente e se gli animatori sono formati adeguatamente. L’ oratorio non è improvvisazione e neppure un modo di fare baby sitter, è un’unica grande azione in cui tutto si sviluppa e cresce, in cui si impara ad essere bravi cristiani e bravi cittadini. L’oratorio è una realtà in continua evoluzione, che va incontro ai giovani in modo dinamico, energetico, che riesce a costruire i legami tra educatore ed animatore, tra animatore e ragazzo in un “mondo” senza spazio e senza tempo. E’ luogo e mezzo di incontro con Gesù. Il ragazzo che frequenta l’oratorio cerca aggregazione e ha bisogno di essere ascoltato, di calore e umanità,  di riconoscersi in un gruppo e diventare un protagonista per i più piccoli, che, raccogliendo la testimonianza, desiderano emularla da grandi. E’ così che nasce la relazione solida e l’accompagnamento spirituale dei giovani che possono essere seguiti da sacerdoti, religiosi, religiose e laici educatori nel periodo delle domande e delle scelte,  in un cammino di conoscenza del proprio progetto di vita. L’oratorio ha questa funzione educativa quando la progettazione diventa un passaggio essenziale dall’educatore all’educato, quando c’è uno studio del territorio, una lettura dei bisogni, quando si pongono obiettivi e dei percorsi da raggiungere insieme, sia come comunità che nel singolo. Queste le tre competenze fondamentali per il progetto educativo: dosare le energie, allenare la riflessività e la verifica. La progettazione educativa è un vero e proprio esercizio di discernimento che ha degli effetti: in oratorio la Chiesa si reinventa; si incontra la realtà; la comunità cresce; si coinvolgono diversi carismi; si tiene accesa e viva la luce della memoria di Gesù nell’ascolto dello Spirito; si assume lo stile dell’animazione parlando il linguaggio dei giovani; avviene l’iniziazione umana alla vita. Oggi l’oratorio ha acquisito una funzione sociale perché le famiglie, prese da una vita frenetica lavorativa, hanno  bisogno di affidare i propri figli a persone sicure, in luoghi tranquilli e più economici   dei vari centri estivi. La domanda educativa e sociale è alta e l’offerta deve essere elevata: piccoli oratori stanno nascendo in molte parrocchie proprio per rispondere a queste necessità, non bisogna cadere nella superficialità e nella fretta. Serve pazienza, serietà e professionalità nelle  parrocchie che sono, quindi, soggetti promotori di programmi e di interventi in aiuto alle famiglie per la diffusione della cultura, dello sport, del divertimento, ma soprattutto della fede. Non dobbiamo dimenticare:  il Vangelo deve essere sempre sorgente e fine di ogni attività oratoriale!

L’educazione è frutto di esperienze educative

L’educazione viene da esperienze dirette. Tutto quello che viviamo in prima persona da bambini e in età adolescenziale aiuta a formare le nostre coscienze e il nostro carattere. Facendo questa osservazione come premessa è facile capire come le esperienze educative che riusciamo a far vivere ai nostri adolescenti, siano di estrema importanza: hanno la capacità di influenzare tutta la loro vita! Anzi, per essere ancora più incisivo, le esperienze che viviamo anche da adulti rieducano le nostre coscienze sempre e ci aprono a vivere orizzonti sempre nuovi.

Proprio per questo vanno curate nei minimi dettagli con attenzione alle particolari sensibilità di ogni ragazzo.

Una stessa esperienza può causare emozioni diverse, è bene per questo dare un valore previo all’esperienza che si vuole affrontare e dopo canalizzare le emozioni che i ragazzi esprimeranno.

È importante che le esperienze educative facciano sentire i ragazzi protagonisti e che abbiano una forte valenza simbolica.

Come costruire un itinerario educativo esperienziale? Ogni esperienza educativa dovrebbe essere composta da alcuni momenti[1].

È importante anzitutto individuare i bisogni concreti di carità dei ragazzi. Ognuno di noi ha diverse sensibilità ed è importante valorizzare le esigenze concrete dei ragazzi del gruppo, che siano capaci di suscitare stupore nel loro cuore. I ragazzi devono essere consapevoli che c’è bisogno di loro.

Nel vivere le esperienze educative dobbiamo far sì che nascano delle domande: come posso cambiare io questa realtà? Qual è l’aiuto concreto che posso dare in questa esigenza caritativa?

Papa Francesco ci parla spesso delle periferie esistenziali: penso che proprio queste periferie siano capaci di suscitare domande di senso nei ragazzi come anche nei più grandi sono capaci di suscitare sempre grandi interrogativi. È importante che ai ragazzi si mostrino, per quanto possibile, le radici delle realtà di necessità. Da dove viene il male, la povertà, il dolore?

Solo formando coscienze nel bene possiamo estirpare il male!

Il Vescovo Simone ci parla spesso dell’Amore: nell’affrontare queste esperienze educative è importante far venir fuori il cuore dei ragazzi e far comprendere loro che nel fare certi servizi è indispensabile donare tutto l’amore possibile: solo donando si riceve!

Le esperienze che si vorranno far vivere ai ragazzi, avendo forte valenza simbolica, dovranno aiutarli a saper rileggere la propria vita per aprirla al dono a Dio e ai fratelli [2].

L’itinerario educativo esperienziale dovrà sempre essere ritmato dalla liturgia, dalla catechesi e dalla carità[3]. Bisogna porre molta attenzione a vivere la carità senza Cristo: le nostre esperienze sono fondate su Gesù e sono vissute per scoprire il Suo volto nelle nostre coscienze. Proprio per questo è indispensabile vivere queste esperienze nella preghiera personale e comunitaria. Sono infatti indispensabili le scuole di Preghiera per gli adolescenti.

 

 

Don Vincenzo Cioppa

[1] Cfr. Sentieri di Pastorale Giovanile, Simone Giusti, 2016, Ed. Pharus, pag.174;

[2] Sentieri di Pastorale Giovanile, Simone Giusti, 2016, Ed. Pharus, pag.175;

[3] Ibid.;

Le caratteristiche dell’educatore alla fede: alcuni tratti fondamentali

Il tempo presente nel quale ciascuno di noi oggi vive è spesso simile al tempo passato: esso contiene una molteplicità di sfide, possibilità, errori, vocazioni etc…  Sarebbe errato pensare al passato come un tempo “perfetto”, un tempo che -in modo nostalgico- non verrà più! Proprio in questo tempo però, vengono sempre più a delinearsi le abilità necessarie per i compiti-vocazioni-missioni ecclesiali, da vivere nella ferialità.

Purtroppo, col passar del tempo, la missione dell’educazione alla fede non solo è passata in secondo piano ma è stata relegata ai soli preti, ai religiosi o a piccoli gruppi; questa missione tanto bella quanto impegnativa è  invece di ogni battezzato, ed è rivolta a tutti gli uomini e non solo quelli che vivono in famiglia ed in parrocchia[1].

Ma è possibile educare o educarsi alla fede, se la fede è un dono? Educare: condurre -chi abbiamo di fronte- fuori ed aiutarlo a “tirare fuori” il meglio di sé ed ascoltare la voce di Dio nella Scrittura.  Ecco che appare evidente che l’educatore non può attrarre a sé (al di là dell’iniziale simpatia/empatia necessarie per una sana educazione) ma deve, con delicatezza ed abilità, condurre fuori  da sé, fuori dall’altro, verso Cristo.

L’educatore è innanzitutto un ragazzo che prega, ascolta ed ama[2] con perseveranza, coraggio e disponibilità.

E’ possibile educare alla fede solo chi ha scoperto di appartenere a Cristo[3], anche se può capitare, non di rado, che chi si ha di fronte non sappia tradurre in parole o non sappia vedere chiaro la presenza del buon Dio. L’educatore quindi non deve abbattersi: l’intuizione del cuore è già una buona strada. Il cammino della vita di fede è un cammino coinvolgente: l’educatore deve essere in grado, cosa che accade anche grazie alla paziente esperienza, di porre -non risposte preconfezionate- ma quesiti riguardo alla vita sia generale che personale[4]. Bisogna ricordare: avere dubbi significa non significa non avere fede! Se abbiamo dubbi Dio ci ama più ugualmente. Si evince che l’educatore deve conoscere, fin dove possibile anche attraverso esperienze personali e comunitarie, la vita del ragazzo.

Essere educatore (e non soltanto farlo) significa andare alla ricerca di Dio ma non senza prendere una decisione o senza fare tagli dal proprio e piccolo universo. Proprio chi educa deve per primo lasciarsi guidare, dare un senso alla propria vita, ricercando la giustizia più grande per tutti, testimoniando l’amore perfino nelle situazioni di incomprensione più difficili e tristi. Forte dell’esperienza personale, del Signore Gesù che “scende” sulle ferite per trasformarle in occasioni di bellezza, l’educatore può testimoniare in azioni concrete questa relazione: la gioia, la comunità, l’umiltà, l’adorazione ed il dono di sé.

Proprio chi sceglie liberamente di educare che deve abituarsi a pensare, progettare e vivere esperienze concrete per far giungere all’incontro pieno con Dio. Sempre l’educatore è consapevole che la Messa domenicale è il grazie settimanale condiviso da ognuno per il dono della fede, dando valore alle cose della vita con il linguaggio della festa, del ritrovarsi insieme e del condividere: parole, silenzi, musiche, canti, vesti e segni; tutto concorre a esprimere quanto è più grande eppur avvolge[5]. Pregare, progettare, accompagnare ma anche…servire! Un vero educatore imita il Signore Gesù che si rese servo dell’umanità: è chiamato a servire nell’impegno di ogni giorno senza mai perdersi d’animo, né cedere alla tentazione dello scetticismo o della disperazione: la fatica del servizio è la fatica stessa di amare! Anche nel dialogo, l’educatore opera un servizio: il dialogo è linguaggio di amore manifestandosi come attenzione e disponibilità agli altri, gratuita e libera. Il dialogo come esperienza che libera ha bisogno, da parte dell’educatore e dell’educato, di gratuità ed accoglienza.

 

L’educatore ha una grande responsabilità da dover esercitare con leggerezza (non superficialità); deve tener ben presente che il cammino di fede non potrà mai, per il ragazzo, essere un percorso bello ed avvincente se il ragazzo non possiede personalmente la “gioia umana”. Essa dipende dalla propria storia di vita ma potrebbe scaturire anche dalla liberazione da quei comportamenti quasi comuni e normali (soprattutto in alcuni contesti sociali) di lamentele, amore possessivo e dominio, ingratitudine, pigrizia, calunnia, violenza verbale per mezzo dei social, violenza fisica e così via.

Chi educa deve saper “volare”, dovrebbe, non tanto essere perfetto, ma far leva e trarre entusiasmo dalla forza gioiosa che solo Dio può donare: “chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova!”[6]. Ecco che allora l’educatore potrebbe invitare a riflettere, testimoniare e poi proporre. L’educazione alla fede non può essere sintetizzata tramite schemi prefissati: il cammino prevedere costanti variabili perché ciascuno di noi è diverso così come è diversa la provenienza, la storia, la famiglia, il carattere …

Il vero educatore dovrà vincere le tappe dell’orgoglio altrimenti sciuperà per sé, e quindi per gli altri, quanto più di bello può esserci dell’esistenza umana; sia il giovane che l’adulto sarà chiamato a vigilare e verificare se stesso[7]. L’educatore alla fede sente nel proprio cuore di far conoscere quest’amore con la testimonianza della parola e della vita, attrarre ad esso, comunicarlo a volte anche con il silenzio di chi ne fa esperienza. Educarsi alla fede è un itinerario non solo possibile ma necessario: l’educatore deve “semplicemente” vivere amando ed amando vivere: le dottrine si spiegano, le persone si incontrano; le teorie si discutono, le persone si riconoscono e si ascoltano[8], per culminare nell’esperienza crescente di questo  Amore, che libera, educa, accompagna, arricchisce, chiarisce, realizza e salva.

[1] RdC 141.

[2] Lettera ai cercatori di Dio, CEI, 2009.

[3] RdC 38.

[4] “Non siamo eterni, non siamo onnipotenti: abbiamo bisogno di vita e di amore”, Lettera ai cercatori di Dio.

[5] Ibid.

[6] Spe salvi, Benedetto XVI, 2,  2007.

[7] Cfr. L’itinerario spirituale dei Dodici, C. M. Martini, 1981.

[8] Cfr. Lettera ai cercatori di Dio, 6.

don Bruno Giordano

La Parrocchia comunità educante

Nella tradizione educativa ecclesiale e non, ci troviamo sempre a confrontarci con figure di educatori molto carismatici e con forti personalità: da don Bosco a Baden-Powell, da don Milani a don Oreste Benzi, … quello che emerge è sempre la loro eccezionale individualità, messa al servizio di tanti, ma con un carisma personale incontenibile.

Se pensiamo alla nostra esperienza personale e pensiamo alle figure che ci hanno formato, pensiamo subito ai nostri catechisti; eppure nel Nuovo Testamento e in particolare negli Atti appare con chiarezza che l’unico soggetto che agisce è la Chiesa accompagnata dallo Spirito Santo o, se vogliamo (ma non cambia), lo Spirito Santo attraverso tutta intera la Chiesa.

In un contesto culturale di tipo individualista qual è il nostro, infatti, non appare immediatamente il ruolo specifico e il contributo che la comunità porta alla formazione dell’identità personale.

Nel Nuovo Testamento sono molti i richiami all’unità e a pensarsi come un unico organismo, perché fin dalle origini si è sempre presentato il rischio che alcune individualità prevalessero sulla comunità o addirittura l’appello ad alcune individualità fosse il pretesto per dividere la Chiesa.

Soffermandoci sulla Parola di Dio, emergono dei punti, che messi in ordine ci vengono in aiuto alla nostra riflessione:

– è la Chiesa che ti chiama e che ti manda; è la Chiesa che ti affida una missione; non esistono auto-candidature; chiunque esercita un servizio, è per il bene comune e a nome della Chiesa (Cfr. At 6; Ef 4; 1Cor 12)

– l’affidamento di un servizio nella Chiesa ha una radice vocazionale e non corrisponde al bisogno, non è un servizio funzionale; è nella comunità che io ritrovo la sorgente del mio servizio (At 20 – discorso di Paolo ai presbiteri di Efeso)

– è la Chiesa che mi aiuta nel discernimento ed è a Lei che devo rendere conto dello svolgimento del mio servizio (non agli utenti); Cfr. At 11,1-18.

– da parte della comunità cristiana è necessaria una presa in carico, una capacità di ascolto e la cura per la formazione di coloro a cui viene affidato un servizio; i formatori agiscono a nome della comunità.

Per tanto non basta una catechista e un animatore, che sappia fare un bel discorso, perché l’educazione cristiana non si può ridurre a una lezione da spiegare. Nessuno deve agire in proprio. L’educatore deve essere espressione della comunità, deve agire e parlare a nome di una comunità.

Questo è forse il punto più delicato perché richiede un chiarimento  delle figure di Chiesa che si prendono cura dell’educazione. È necessario proporre cammini di corresponsabilità; educare non prevede nessun tipo di delega.

Certamente prevede e richiede una competenza umana, di fede ed ecclesiale.

Va anche sottolineato il fatto che il cammino educativo della comunità cristiana deve, da un lato, fornire forme di vita cristiana provocanti e dall’altro fornire gli spazi di crescita che favorisca la formazione di una coscienza morale libera e consapevole.

Nella Chiesa non vi sono figure solitarie preposte all’educazione, ma è la Chiesa tutta chiamata ad educare. Questo perché tutta la Chiesa è discepola dell’unico Signore. In questo senso la Chiesa potrà essere presentata, anche e non certamente solo, come una comunità educante che sa mettersi in ascolto del suo grande educatore che è Cristo Signore. E da questa stessa opera nasce la Chiesa, ne è come generata.

Anche il prologo della prima lettera di Giovanni, ci presenta la Chiesa non come una “cosa” davanti al credente, ma come un evento che genera e alimenta la vita del discepolo; come il “grembo” in cui nasce l’esperienza cristiana.

È possibile conoscere il Vangelo solo in una comunità che vive nella carità, nella fraternità. Ogni attività educativa porta frutti se introduce nella vita della comunità cristiana.

Pertanto occorre una comunità di persone che vivendo la vita cristiana la rendano desiderabile e attraente per gli altri. È necessario che ogni educatore, si senta parte della comunità educante e agisca a nome di essa.

Ecco l’impresa che ci aspetta: favorire gli incontri, la conoscenza, la condivisione. Bisogna seminare un tessuto comunitario che ha il suo centro nella Messa alla quale è importante trovarsi insieme.

Occorre far riscoprire alle parrocchie la loro capacità educativa e la consapevolezza che non possono che essere comunità educanti, con la catechesi, con la liturgia e con la carità.

Per fa ciò si deve ripartire dalla riscoperta della vocazione educativa.

 

A cura di Don Federico Mancusi

Educare significa donarsi come lui si donò

“Sullo stile di Gesù, quale emerge dal suo rapporto con i discepoli di Emmaus, dobbiamo chiederci se e fino a che punto il nostro impegno al servizio dell’educazione sia fatto di compagnia, memoria e profezia. O si è capaci di generare testimoni liberi e convinti di ciò per cui vivono o si fallisce lo scopo. Chi educa non crea dipendenze ma suscita cammini di vita in cui costruire nella luce che sola illumina il cuore.”[1] Una sfida al processo educativo viene dalla penuria di speranze in grande che sembra caratterizzare la cultura post-moderna: tramontato il sole dell’ideologia, il futuro non appare più certo e affidabile, come volevano rappresentarlo i ‘méga-recits’ ideologici delle più diverse matrici. Uscire dal buio degli orizzonti verso cui andare è sfida decisiva, tanto per l’esistenza personale, quanto per l’impresa collettiva. Su questo punto il racconto di Emmaus svela ricchezze sorprendenti: Gesù schiude ai due discepoli un nuovo futuro, aprendo il loro cuore a una speranza affidabile; egli accende la profezia, contagiando il coraggio e la gioia. È scopo dell’educazione schiudere orizzonti, raccogliere le sfide e accendere la passione per la causa di Dio tra gli uomini, che è la causa della verità, della giustizia e dell’amore. Chi educa non deve pretendere di dominare l’altro, ma deve aspirare a liberarlo per la sua libertà più vera. Gesù procede così: si fa vicino, spiega le Scritture, alimenta il desiderio, si fa riconoscere e offre ai due l’annuncio di sé, della sua vittoria sulla morte, rendendoli liberi dalla paura e provocandoli alla libertà della missione: «Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro… E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (vv. 15 e 27). «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista» (vv. 30-31). Si accende nei cuori dei due una ‘grande gioia’ (v. 41). È da questa gioia che scaturisce l’urgenza di partire subito per portare agli altri la buona novella di cui sono ormai testimoni: «E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone» (vv. 33-34). L’incontro vissuto esige di essere testimoniato: non puoi fermarti a ciò che hai avuto in dono. Devi a tua volta donarlo, camminando sulle tue gambe e facendo le scelte della tua libertà. L’educazione o genera testimoni liberi e convinti di ciò per cui vivono, o fallisce il suo scopo. Chi educa non deve creare dipendenze, ma suscitare cammini di vita, in cui ciascuno giochi la propria avventura al servizio della luce che gli ha illuminato il cuore. «Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane » (v. 35). L’educazione ha raggiunto il suo fine quando chi l’ha ricevuta è capace di irradiare il dono che lo ha raggiunto e cambiato: «Ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento della storia – affermava – sono uomini che, attraverso una fede illuminata, rendano Dio credibile in questo mondo… Uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando di lì la vera umanità, uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore… Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini».[2]

Educare, insomma, non è clonare, ma accogliere la vita col dono della vita, suscitando i cammini di libertà di un’esistenza significativa e piena, spesa al servizio della verità che sola rende e renderà liberi. L’educatore o è testimone di una speranza affidabile, contagiosa di verità e trasformante nell’amore o non è. L’icona biblica di Emmaus ci consente così una descrizione dell’azione educativa: educare è accompagnare l’altro dalla tristezza del non senso alla gioia della vita piena di significato, introducendolo nel tesoro del proprio cuore e del cuore della Chiesa, rendendolo partecipe di esso per la forza diffusiva dell’amore. Chi vuol essere educatore deve poter ripetere con l’apostolo Paolo queste parole, che sono un autentico progetto educativo: «Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia» (2 Corinzi 1, 24). Sullo stile educativo di Gesù, quale emerge dal suo rapporto con i discepoli di Emmaus, dobbiamo esaminarci tutti, chiedendoci se e fino a che punto il nostro impegno al servizio dell’educazione sia fatto analogamente di compagnia, memoria e profezia. Questo vale tanto per la quotidiana comunicazione vitale fra le generazioni, quanto per l’impegno educativo, quanto per l’azione pastorale della Chiesa e il servizio alla causa dell’evangelizzazione. Dio, che ha educato il suo popolo nella storia della salvezza, continua a educarci e a educare: «Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Giovanni 14, 26). Non rinunciamo dunque a raccogliere la sfida educativa, qualunque sia il livello di responsabilità che ci è dato di vivere. E confidiamo nel divino Maestro. A Lui vorrei rivolgermi in conclusione, dicendogli con semplicità e fiducia a nome di tutti coloro che vogliano accettare e vivere la sfida educativa: Signore Gesù, ti sei fatto compagno di strada dei discepoli dal cuore triste, incamminati dalla città di Dio verso il buio della sera. Hai fatto ardere il loro cuore, aprendolo alla realtà totale del Tuo mistero. Hai accettato di fermarti con loro alla locanda, per spezzare il pane alla loro tavola e permettere ai loro occhi di aprirsi e di riconoscerti. Poi sei scomparso, perché essi – toccati ormai da te andassero per le vie del mondo a portare a tutti l’annuncio liberante della gioia che avevi loro dato. Concedi anche a noi di riconoscerti presente al nostro fianco, viandante con noi sui nostri cammini. Illuminaci e donaci di illuminare a nostra volta gli altri, a cominciare da quelli che specialmente ci affidi, per farci anche noi compagni della loro strada, come tu hai fatto con noi, per far memoria con loro delle meraviglie della salvezza e far ardere il loro cuore, come tu hai fatto ardere il nostro, per seguirti nella libertà e nella gioia e portare a tutti l’annuncio della tua bellezza, col dono del tuo amore che vince e vincerà la morte.

 

 

[1] BRUNO FORTE, Avvenire del 6 settembre 2018

[2] Il Card. Ratzinger pochi giorni prima della sua elezione a successore di Pietro, parlando a Subiaco il 1 Aprile 2005

Testimoni di carità nel servizio educativo

Dio in ricerca dell’uomo

Tutta la storia della salvezza ci presenta il Signore che come un buon pastore esce nella notte per ritrovare chi era sperso, è questa verità fondamentale che motiva l’azione dell’educatore e lo porta ad essere una manifestazione della “passione” di Dio per l’uomo, un annuncio dell’amore del Padre per tutti i suoi figli, un grido forte e dolce per coloro che più sono lontani da Lui.

Dio in cerca dell’uomo per liberarlo e redimerlo: è incarnando questa verità che nasce una tensione educativa che non si arresta mai di fronte a nessuna difficoltà e che mira alla promozione integrale di tutto l’uomo e di tutta la società; è facendo palpitare dentro di noi il cuore divino che conteremo i ragazzi del gruppo e ci accorgeremo di quanti ancora manchino all’appello; è vedendo l’attento agire della Provvidenza che ci accorgeremo delle molte miserie e povertà dei ragazzi e faremo della nostra vita un dono ai più piccoli.

 

Dio è l’educatore del suo popolo

“Uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli”. (Mt 23,8)

È questo quando ci dice il Vangelo di Matteo riportandoci le parole di Gesù, è questa una verità della fede da meditare lungamente per comprendere che il servizio educativo è partecipazione dell’azione educativa divina da viversi secondo lo stile della pedagogia divina. “Dio stesso, infatti, nel corso della storia sacra e soprattutto nel Vangelo si è servito di una pedagogia che deve restare a modello per la pedagogia della fede” (Giovanni Paolo II, Catechesi Tradende, n° 58). Si tratta di una pedagogia che possiede caratteristiche sue proprie, sempre valide con il mutare dei tempi, e perciò irrinunciabili. Sono caratteristiche che si sono evidenziate nella storia della salvezza (cfr. Documento Base “Il Rinnovamento della catechesi” ai nn 15, 78, 86, 175).

  • Tutta la pedagogia divina è finalizzata a creare un rapporto interpersonale di comunione fra Dio e l’uomo.
  • Nel comunicarsi all’uomo, Dio si fa accondiscendente verso di Lui e si adegua alla sua realtà umana fino ad assumere egli stesso in pienezza l’umanità.
  • Dio incontra l’uomo e gli offre la sua salvezza in un popolo rispettando la struttura sociale dell’uomo.
  • Poiché l’uomo si manifesta e si comunica attraverso segni, Dio ha scelto la stessa via per rivelare sé stesso e il segno più grande che ci ha dato è il Figlio suo Gesù Cristo.
  • Rispettando la storicità dell’uomo, Dio fa sua la legge della gradualità educando passo passo l’uomo verso un incontro sempre più profondo con Lui.

Come collaborare quindi con il Maestro senza esserne stati precedentemente e senza esserne contemporaneamente discepoli?

 

Dio in cerca dell’uomo perché l’uomo viva.

La gloria di Dio è l’uomo vivente (S. Ireneo – Contro le Eresie).

L’agire di Dio è all’insegna della totale gratuità, non cerca niente per sé perché “Dio è amore” (1Gv 4,8). Questa verità della fede ispirando l’agire dell’educatore lo porterà a non cercare mai nessuna diretta gratificazione del servizio che svolge, lo condurrà a non voler strumentalizzare i ragazzi per suoi secondi fini, lo orienterà a promuovere pienamente le personalità dei ragazzi e a non voler mai farne esseri a sua immagine e somiglianza: non Lui è il modello ma Cristo. Gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date (Mt 10,8). Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici (Gv 15,13). Allora qual è la ricompensa di un educatore? …Sta nella possibilità che gli è data di amare come Cristo: donandosi dimenticandosi “perché c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (Atti 20,35).

 

Davanti a Dio conta la santità non l’età

In virtù del battesimo tutti gli uomini sono figli di Dio e hanno pari dignità. Questa affermazione che esprime un’altra verità contenuta nella SS. Scrittura è fondamento del protagonismo dei ragazzi nella Chiesa e consequenzialmente di quel gruppo di Chiesa che è il gruppo catechistico.

Il protagonismo dei ragazzi è vittoria della Grazia sull’efficienza. Umanamente i ragazzi sono incapaci di fare molte cose che il giovane e l’adulto compie, in virtù della Grazia nessun obiettivo gli è precluso: né la santità né il martirio per la fede come la storia della Chiesa ci mostra. Questa verità della fede dovrà pertanto costantemente illuminare l’essere e l’agire dell’educatore affinché rispetti sempre i ragazzi, la loro capacità, la loro responsabilità nel vivere una esperienza.

mons. Simone Giusti

“LEO E BEATRICE” OVVERO “BIANCA COME IL LATTE, ROSSA COME IL SANGUE”

di Luigi Cioni*

Non so se sto peccando di presunzione nell’affermare di aver capito qualcosa, ma a partire esclusivamente dalla mia esperienza, mi pare
di poter dire che se crediamo, in una qualsiasi attività educativa, di poter procedere in modalità deduttiva, di poter fare affidamento cioè su
idee, astratte, ben assimilate e consolidate, e da lì costruire la nostra prassi e la nostra comunicazione pedagogica, ritengo che saremo destinati ad un inesorabile fallimento.
Cerco di spiegarmi meglio, facendo riferimento a me stesso. La mia generazione si riconosceva in alcune idee, aderiva intellettualmente
a delle proposizioni che ritenevamo convincenti, quando non addirittura ovvie e indiscutibili, e da lì riuscivamo a trarre un dover-essere
che informava la nostra vita, pur tra errori e fallimenti, ripartenze e successi. Questo anche nella nostra ricerca di essere cristiani: il punto
di partenza era la fede! Da essa, più o meno consapevolmente, discendevano le nostre scelte che volevano, o almeno ci provavano, essere
coerenti con ciò che affermavamo con le parole. Quindi: “l’amore per il prossimo”, la “cura”, perfino la preghiera e la meditazione.
Quanto questo fosse convinzione o tradizione, motivazione interiore o posa, per alcuni aspetti è stato dimostrato dall’incedere del tempo
che, inesorabile, ha mostrato, nei nostri volti riflessi nello specchio, non solo le immancabili righe, ma come novelli Dorian Gray, anche le
nostre contraddizioni ed il nostro io più autentico (o forse umanamente inautentico).
Credo che da questo processo la generazione attuale si sia più o meno consapevolmente emancipata e, anche quando chiediamo conto ai nostri ragazzi e giovani della loro capacità di dono, di altruismo, di charitas, di cura e di agape, come necessità di coerenza di fede, forse ciò che ci sapranno, o vorranno restituire, altro non sarà che un comportamento, un atteggiamento. Scelte, fatte in nome di moto interiore, di una empatia che ha mutato la loro vita, magari anche in maniera sconvolgente, senza che neppure sappiano elencarne i motivi razionali. Quindi direi, in modo induttivo, per certi versi.

Si parte dall’esperienza, dal desiderio, dalla “voglia”, si arriva alla scelta esistenziale e, forse solo dopo, alla consapevolezza ideale.
Questo processo sta alla base di un libro che tutti abbiamo letto, magari con un po’ di sufficienza e di paternalismo (soprattutto noi anziani),
ma da cui non possiamo dire di non essere stati, almeno in parte, toccati: Bianca come il latte, rossa come il sangue, romanzo di esordio di
Alessandro D’Avenia (Mondadori, Milano 2010) Mi riferisco al libro, più che al film che ne è stato tratto (Italia, 2013), per l’immancabile semplificazione che spesso comporta il passaggio sulla pellicola di un’opera scritta, ma soprattutto perché la scelta di Leo, protagonista della storia, trova nel testo scritto una più accurata espressione.
La scelta della cura, dell’accompagnamento, della assunzione del dolore altrui come proprio, che nasce dall’infatuazione giovanile per una ragazza, lentamente si trasforma e diventa sempre più una scelta di consapevolezza. Il ragazzo è costretto a guardarsi dentro, a trovare la fonte del suo dolore, e al contempo della sua volontà di non sottrarsene, come invece la sua istintività di superficiale desiderio di sopravvivenza gli suggerirebbe. Questo processo lo porta a scoprirsi, alla fine, diverso. Diverso perché più capace di distinzioni, di maggiori profondità, di gioia che non derivi solo dal banale divertimento, ma da sorgenti più antiche e autentiche.
In poche parole capace di carità. Capace di amore! Una capacità che non gli deriva dalla adesione intellettuale a delle categorie concettuali,
ma dallo sguardo di Beatrice. Dal suo volto, in cui Leo desidera trovare, o forse solo intravede, la sua personale possibilità di essere un di più,
un altro.
Da tutto questo nasceranno anche le idee, la consapevolezza, le scelte? Nessuno lo sa! Nemmeno lui. Sa solo che ha sentito un richiamo, una vocazione, diremmo noi più vetusti. Per adesso ci sono le domande. Le risposte verranno. Forse anche solo un nuovo amore, più consapevole, magari educato da una vita condivisa.