IMPOSSIBLE IS NOTHING

*di Igino Lanforti*
Iniziato il periodo di DAD (didattica a distanza) anche un profano dell’informatica come me, abituato ad antiche tecnologie, ho dovuto
relazionarmi con i miei alunni per non lasciarli soli in questo difficile periodo. Ho quindi scelto di inviare una lettera settimanale e lasciare in calce la mia mail per entrare in dialogo con me. La scelta si è rivelata felice perché ho ricevuto centinaia di lettere e ogni mattina ho passato ore a rispondere ad ognuno. E’ impossibile fare anche solo un sunto di quanto arrivato e pertanto ho lasciato solo le prime lettere. Alla fine ho voluto aggiungere anche poche righe di due genitori. Questo non per vanto personale, ma come testimonianza che la DAD è arrivata nelle case e ha coinvolto anche lefamiglie.

22 marzo 2020
L’IMPORTANZA DI RIFLETTERE SU QUESTI GIORNI
Carissimi alunni e alunne, non son bravo con la tecnologia e probabilmente non riuscirò mai a fare una lezione virtuale, ma volevo condividere con voi alcune riflessioni a quasi venti giorni dalla sospensione della scuola e allora utilizzo questo modo.
Ormai è la terza notte di fila che mi sveglio in preda a brutti sogni. Stanotte non sono riuscito a riprendere sonno, mi sono passate per la testa molte cose, e mi siete venuti in mente voi. Mi sono chiesto quali saranno stati i vostri sogni, i vostri stati d’animo in questo periodo e ho realizzato che in fondo siamo come compagni dell’unico viaggio, anche se dislocati in vagoni diversi, anche se con situazioni e con età diverse; ma da compagni di viaggio alcune riflessioni possiamo condividerle. Non è mia intenzione rattristarvi o farvi perdere troppo tempo, avete già anche troppe gatte da pelare in questi giorni , ma penso che questa brutta storia non finirà troppo presto (i motivi di questo mio sentore ve li esporrò un’altra volta) e allora cogliamo l’occasione per dirci alcune cose, perchè sono certo che ci sono dei concetti che normalmente fanno fatica a essere accolti (nel senso di ascoltati, non necessariamente condivisi) mentre la sofferenza ha questo incredibile pregio di ammorbidire le nostre corazze e permettere che l’autenticità che è in ciascuno, cominci a confrontarsi col “senso” delle cose. Viviamo in una cultura che ci ha insegnato una cosa: che i limiti non esistono. Mi viene in mente una pubblicità della nota marca di articoli sportivi Adidas che recitava: impossible is nothing. Niente è impossibile. Dietro questa concezione c’è sicuramente un’idea, che se niente è impossibile, non c’è niente che non si possa volere e infine “comprare”.
Al di là dei subdoli aspetti economici, questa visione contiene un veleno ancora più pericoloso. Questo pericolo è il credere che tutto
sia alla nostra portata e in definitiva che tutto quello che si desidera si possa fare e se si può fare, sia lecito, giusto. Non voglio in questo
passaggio sembrare troppo moralista (voi che mi conoscete, sapete benissimo che non è così), ma non posso tacere su alcune scelte che ormai sono diventate di uso comune, o meglio ancora “normali” e che forse così normali non lo sono… Mi riferisco al fatto che molte/i di voi per esempio pensano che sia inutile aspettare per conoscersi meglio se alcune cose si possono fare prima o subito, e se abbiamo sbagliato, pazienza c’è sempre un rimedio, ci sarà sempre un rimedio. C’è sempre un rimedio per tutto: impossible is nothing! Dobbiamo solo deciderlo noi. Perchè è proprio così, noi possiamo decidere tutto della nostra vita, anche la vita stessa (ripensate alle nostre passate lezioni). Perchè il limite non esiste, ce lo ha imposto la religione che ci dice sempre che questo non si può fare, che questo è proibito… ma è tutta una bugia, è roba passata! Questo si pensa oggi! Guardate con un po’ di attenzione la televisione, o semplicemente guardiamoci intorno, vedrete che le cose stanno così. I limiti qualcuno li ha inventati perchè non vuole che siamo noi a decidere, perchè vuole vederci infelici, e allora abbattiamoli, scavalchiamoli!

Care, care alunne/i ho l’impressione che le cose non stiano affatto così. Nel mondo senza limiti, nel mondo dove niente è impossibile, arriva un microscopico organismo, un virus, e improvvisamente, tutti noi che ci sentivamo dei giganti, ora ci sentiamo piccoli piccoli, fragili, impotenti. E tutto ci crolla addosso, perdiamo il sonno. Forse è meglio approfittare di questo tempo per riflettere sul “limite”.
Non solo per prenderne atto, e indirizzare meglio il nostro operare, ma per renderci conto che se abbiamo dei limiti, allora vuol dire che non siamo onnipotenti e che tutti noi, tutti, nessuno escluso, ha bisogno di aiuto, HA BISOGNO DEGLI ALTRI!
E allora, anche questa settimana, vi voglio accennare al vangelo della Messa. C’è uno cieco dalla nascita (Giovanni 9,1-38): la gente chiede a Gesù di chi è la colpa della sua cecità, ma Gesù prende del fango, lo mette sugli occhi dell’uomo e gli comanda di lavarsi. Dopo, riacquisterà la vista… (non sarebbe male che ve lo leggeste tutto). Ditemi, quello che ci sta capitando adesso, non è un bel po’ di fango?
E questo fango, quanto ci fa soffrire, è insopportabile! Quando finalmente non saremo più sporchi? Forse, non avete il coraggio di dare
tutta la colpa a Dio (anche perchè non ci credete), ma certo che… Comunque vorremo che tutto questo brutto sogno fosse lavato via presto, e tornare finalmente a vedere il sereno, come prima. Però attenzione, vi anticipo, allora voi mi direte che è Dio che ha messo il fango, cioè che questa pandemia l’ha messa Lui… e che cavolo di dio è! Noi non consciamo Dio, ma siamo pronti ad accusarlo, a scaricare su di Lui il nostro malessere…
Anche la gente attorno al cieco si interroga su di Lui e non capisce, ma è pronta a scacciarlo dalla città. Sarà proprio il cieco guarito a darci la risposta: “voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi”. Bene, il vangelo sembra volerci dire che forse non ci vedevamo così bene prima, e che il fango paradossalmente ha fatto traballare alcune nostre convinzioni, ci ha fatto scoprire che non andava tutto bene. Sarà proprio vero che il limite non esiste? Che decidiamo tutto noi? Che impossible is nothing? Quando i nostri occhi saranno lavati, quando tutto sarà finito, allora ci vedremo veramente… ma… ma ci vuole Uno che ci dica di andarci a lavare e dove andarci a lavare… Questa voce è nel nostro cuore. Il Salvatore c’è e non ci molla. A presto

CARO PROF…
Buongiorno prof, ho letto e apprezzato il discorso sul limite e condivido con lei il mio pensiero stitichezza a parte….questi sono giorni duri per tutti, perciò al di la della fede, del pensiero di ognuno di noi, credo che non ci sia persona che non abbia paura, che non si stia interrogando su cosa accadrà, e perché sta accadendo tutto ciò. Fino a qualche giorno fa l’uomo pensava di essere invincibile, di avere tutto il potere, ma la natura, Dio o entrambi ci hanno dimostrato che stavamo sbagliando. L’uomo è solo un puntino nel mondo e nonostante sia di massa superiore al virus, è stato schiacciato come una formica sotto le zampe di un elefante, se non peggio… perciò sì, abbiamo dei limiti insormontabili, non è vero che tutto è possibile, tutto è possibile nel limite che la natura ci dona. Perciò spero che tutta questa disgrazia ci faccia capire cosa è veramente importante, che la famiglia conta più della discoteca, più dell’aperitivo…che stare soli con se stessi ci fa bene e ci permette di capire veramente noi stessi fino in fondo, e che alla fine non siamo mai veramente soli.
L.C. 5A

Scrivo in risposta alla seconda riflessione, cercando di accennare anche alla prima che aveva caricato. Limiti, è vero quello che dice lei, oggigiorno ci si sente ripetere continuamente che non ci sono limiti se si crede in noi stessi, che credendoci si possa fare qualsiasi cosa. Ognuno di noi si trova prima o poi a far faccia ai propri limiti personali, possano loro essere fisici (malattie, o la banale mancanza
di allenamento), psicologici, sociali ed economici. Nella società attuale si può, almeno in parte, applicare il “nothing is impossible”, ma
solo perché viviamo in un’epoca e in una società con un’ampia libertà e tutto ciò ci permette di avere più opportunità, di scegliere, per quello che possiamo, cosa fare della nostra vita, cose impensabili sotto regimi restrittivi. C’è una categoria di gente, che ha la possibilità di oltrepassare più limiti rispetto agli altri, parlo dell’élite, dei ricchi, coloro che possiedono a bizzeffe ciò che regola il mondo, il denaro, grazie al quale ottengono alcune immunità, occasioni e poteri decisionali, che se non direttamente possono influenzare il popolo sfruttando la loro notorietà e visibilità aumentata grazie alle attuali tecnologie. Io personalmente non ho mai invidiato i ricchi, tantomeno quelli che lo sono di nascita, data la loro posizione privilegiata immeritata, perché accecati dai loro fogli di carta e carte visa credono di valere più di altri, credono di essere al di sopra di tutti (cosa comune anche ad alcuni poveri), dimenticando che altro non sono che una piccolissima stella nell’universo che sembra brillare di luce intensa da vicino ma se osservata in lontananza brilla esattamente come tutte le altre, e che la loro vita non è poi tanto diversa dalle nostre, con i nostri dubbi, delusioni e gioie. Con ciò non voglio dire che tutti siamo uguali, le differenze sono evidenti, ognuno con il suo carattere forgiato dalle proprie esperienze di vita, ma al contempo con i propri limiti, che ahimè accettarli ci farebbe sentire inferiori quindi logicamente tendiamo a nasconderli. Le differenze esistono, sono legittime e talvolta ereditarie, anche se negli ultimi periodi sembra divenuto tabù parlarne, come avere idee contrastanti alla maggior parte della popolazione; siano queste idee giuste o sbagliate, esprimerle è sinonimo di libertà di pensiero ed espressione, quindi forse non viviamo nella piena libertà come invece crediamo. Io stesso non accetto di avere dei limiti, sempre proiettato con la mente verso il futuro. Ma ora le rivolgo io una domanda: se al giorno d’oggi crediamo di non avere limiti, perché aumentano sempre di più le persone che si pongono il limite della morte? Che credono che tutto finisca? Non è questo un limite stesso in contrapposizione al “nothing is impossible”?
T.G. 5A

Buongiorno prof,
personalmente ho apprezzato molto le sue parole e riflessioni, in cui in parte mi sono ritrovata. Mi è piaciuta particolarmente quella sui limiti, non solo perché ho letto un’opinione diversa dal solito su questo tema, ma anche perché avere l’idea di vivere in un mondo senza limiti è uno degli elementi che ha portato l’uomo a dare meno valore del dovuto a determinate decisioni ed azioni, a pensare di poter fare/avere tutto e subito e di essere fine a se stesso; per cui l’esistenza di un elemento che potrebbe sembrare esclusivamente negativo, come il limite, acquista la sua importanza. Per rispondere alle sue domande: credo che l’espressione “si era fatta sera”, con cui inizia il Vangelo si riferisca ad una sera metaforica; più che altro ad un periodo negativo o comunque sfavorevole, che nel caso della narrazione coincide con la tempesta per delle persone che si trovano su una barca. Sicuramente nelle nostre vite “si è fatta sera”, ci troviamo in un momento particolare sotto ogni punto di vista, difficile da definire. Tuttavia ritengo che “questa sera” possa essere una grande opportunità dal punto di vista riflessivo. Ci ha permesso di capire che il mondo in cui siamo abituati a vivere così freneticamente,
ma soprattutto con così tante certezze non va poi tanto bene; ci ha voluto dire qualcosa, si è voluta “fermare”, dandoci del tempo per esaminare le nostre azioni, le nostre scelte, la nostra vita. Probabilmente la stessa ”sera” che ci ha portato ad essere una società così individualista, ci ha voluto ricordare l’importanza di valori quali la solidarietà, la comunità, l’umanità, la fratellanza. Dal punto di vista religioso ho trovato molto interessante ed emblematico oltre al comportamento di Gesù in questo episodio, a cui ho dato varie interpretazioni, pur non trovandone una convincente (non so se si tratti di fiducia nel genere umano o dell’affermazione implicita della sua umanità…); anche due parti del suo pensiero: la prima è l’essere pronti a dare la colpa a qualcuno anche se non si è sicuri della sua esistenza e la seconda è l’essere disposti a far salire Gesù sulla barca della propria vita. Credo che siano temi davvero importanti, che facciano capire la complessità e la particolarità dell’atteggiamento e del pensiero umano e divino. Saluti, a presto
L.V. 4A

LA SCUOLA E LA PANDEMIA

*di Daniela Novi e don Mario Simula*
Caro don Mario,
quando a marzo la scuola è stata sospesa a causa della pandemia, in un primo momento sono stata contenta di restare a casa, di non alzarmi presto per prendere il pullman, di dormire un po’ di più, di stare più tempo incollata al telefono, per chattare o giocare. Quando, però, la situazione è diventata sempre più grave e, oltre a non andare a scuola, non potevo neanche uscire, quando la paura di morire ha iniziato a insinuarsi nella mente, nelle ossa e negli occhi spaventati di mia nonna, quando le notizie del tg non lasciavano spazio  all’apertura né del cielo né della terra, oppressi dal grigio della pioggia e dal silenzio della solitudine di un uomo vestito di bianco a piazza san Pietro, allora ho iniziato ad essere sempre più nervosa e preoccupata. Aggiungi a tutto questo che la scuola, dopo pochi giorni di pace, ha iniziato la famigerata didattica a distanza, per tutti DAD, con collegamenti quotidiani via web con i professore, compiti, lezioni e interrogazioni. Davanti allo schermo ogni giorno si materializzavano i busti colorati dei miei compagni di classe, che sembravano vicini, ma che, come quelli di marmo in un museo, non potevo toccare, con cui non potevo giocare o anche solo mangiare un panino. Quando poi la connessione non riusciva e sprecavo mille tentativi per entrare ed uscire dalla piattaforma, neanche quel pezzo di vita mi era concesso. Grazie a whatsapp con gli amici ci scambiavamo idee, commenti e, lo confesso, qualche volta anche i compiti, ci facevamo delle confidenze, che però erano patrimonio di tutti e a me mancava quel minimo di privacy necessaria a commentare una mia vicenda personale, come facevo in classe con la mia compagna di banco.
Che strano, tutti noi studenti eravamo seduti comodamente nelle nostre camerette, ma la poltrona o il letto ci bruciavano sotto e il desiderio di incontrarci e di parlarci dal vivo superava il fascino dello schermo che ci teneva in posizione orizzontale. Neanche l’inquadratura delle foto tridimensionali da pubblicare su Fb, neanche le 24 ore di una “storia” postata su Instagram bastavano a calmare il desiderio di essere spazio e tempo fuori dalle mura di casa, fuori da me per essere altro, per essere altri.
A Pasqua la preside inviò un videomessaggio a tutti noi per salutarci e, non so per quale assurdo motivo, goccioloni di lacrime mi sgorgarono sugli occhi. Mi immaginavo nel mio piccolo banco a far finta di ascoltarla e quasi per miracolo capii che mi mancava la scuola, mi mancavano i prof, I miei compagni, ma soprattutto mi mancava l’aria che respiravo lì dentro, mi mancava la “me” che guardava attraverso l’oblò disegnato sul muro delle scale e che immaginava di essere realmente in viaggio, in un qualsiasi posto del mondo, spensierata, libera, felice…” Tuttavia, non potendo uscire, ho iniziato a guardarmi intorno, per cercare se c’erano crepe nel muro da cui evadere e piano piano ho iniziato a osservare con più attenzione i confini della mia casa, le forme dei mobili, la scelta dei posti dove erano collocati gli oggetti, i lineamenti delle persone intorno a me, troppo spesso ignorate nel vociare della rete, nelle connessioni di legami virtuali. Lo sguardo di mia madre, la ruga sulla fronte di mio padre, le sopracciglia folte di mio fratello, tutti frammenti di un unico discorso d’amore, compresso nello spazio di un salotto e nell’ampio orizzonte di una scelta. Forse, pensai, potevo affidarmi
anche a qualcuno di loro, forse potevo dondolare dal trapezio dei miei sogni e al momento di saltare pensare di afferrare delle braccia
che ti aspettano o di sapere che sotto c’è una rete su cui cadere… E così ho aperto uno spiraglio nel silenzio della comunicazione faccia a faccia e la luce è entrata dal buco della porta del mio silenzio: una parola dopo l’altra, come quando tiri il fazzoletto dalla giacca del piumino ed esce tutto il contenuto della tasca. Ero ascoltata e mi piaceva ascoltare, ero capita e, se non capivo, la diversità mi sembrava comunque logica e accettabile. Forse in casa c’era più di un’amica e meno di una madre, forse c’era un oltre rinchiuso anche nel lockdown, che sapeva di me molto più di quanto io stessa pensassi…

La quarantena mi ha cambiata. Per quanto riguarda gli altri ora ho degli amici con cui posso confrontarmi e posso aprirmi, mentre prima per i miei discorsi avevo paura di risultare una povera illusa o una masochista o menefreghista. Tuttavia ho imparato anche a stare da sola, a capire meglio me stessa e ciò che voglio, a guardare lo spessore delle cose oltre le cose, a sollevare lo sguardo oltre lo schermo di un cellulare, a togliere le cuffie per cantare una canzone insieme agli altri, a riconoscere il valore del bene nella nostalgia del bene, a cadere e a rialzarmi più forte di prima. E a chi pensa che un virus ci tenga lontani, forse l’amore per sempre ci renderà più sani?
Anna Martina

Cara Anna Martina,
non te la prendere. Proprio perché non ti conosco, non te la prendere. Ho avuto un pensiero come un lampo mentre leggevo la tua lunga
lettera: Anna Martina nella “clausura” del lockdown ha affinato la sua scrittura. Il tuo testo è interessante, detto bene. Da ragazza che
è cresciuta. Miracolo della pandemia! O miracolo del silenzio. Chi lo saprà mai? Anna Martina, veniamo a noi. Hai capito come si fa a svezzarsi dal letto sempre sfatto e disponibile? E’ sufficiente poterci rimanere fino ad ammuffire. Hai capito come ci si può stancare della musica a tutta birra, insolente e anestetica? Basta poterne fare un’overdose. Chiusi controvoglia, si ridimensionano le voglie. E’ sempre così. La sbronza spezza le gambe. La “roba” consuma il cervello. Il ragazzo sempre incollato diventa una paranoia. “Gli amici mattina sera e notte” ti asfissiano. Potrei continuare. Abbiamo cantato dai tetti. Siamo diventati patrioti per qualche giorno, tutti. Tutti abbiamo sposato uno slogan incoraggiante: “Andrà tutto bene”.
Invece nulla ha scoraggiato il Covid-19: andrà tutto bene. Infatti…. Che straordinario personaggio questo virus! Non guarda in faccia a
nessuno. Non bussa alla porta per entrare. Lo acchiappi per una zampa e sfugge. Eppure, nella sua insensata logica il “corona virus” ci ha aperto la testa e forse un poco anche il cuore. Dì la verità, Anna Martina, che fa un certo effetto accorgerti che hai una casa, una famiglia, un padre che sa sorridere, una madre e un fratello.
Capita di stare accanto per anni, ma la fantasia è altrove. Il pub, il sabato sera, l’immancabile discoteca, le grida per strada, gli scherzi un po’ arditi, gli angoli appartati per rifugiarci col ragazzo. Hai sperimentato che tutto può diventare virtuale, cibo prelibato per la curiosità di tutti, ridimensionato da una mascherina che sembra una camicia di forza pronta a penalizzare baci e abbracci. Uno stress, una penitenza. E se fosse un’opportunità? Se non confondi ciò che sto per dirti con una predica, mi permetto di lanciare qualche slogan.
Slogan numero uno: Da soli come mai visto prima è una “figata”. Esisto. Proprio così: esisto. Pelle ossa e polpa. Con gli occhi, il naso, le
orecchie, i fianchi. Esisto senza trucco, come sono uscita dalla pancia di mamma. Esisto. Per capire che esisti occorre avere tempo per accorgersene. Esisti come un prodigio. Annama’, sei un prodigio.

Slogan numero due: Che sorpresa i babbi! Questi oggetti misteriosi si
svelano. Lo devo riconoscere: mio padre non è niente male. Chi si era mai accorto che fosse anche simpatico, disteso, rilassato. Con le orecchie aperte. Curioso di sapere questa sua figlia “invisibile”. Annama’, hai trovato tuo padre.

Slogan numero tre: Anche le mamme non sono male. Purché restino madri. Nient’altro che madri. Di amici e amiche ne abbiamo tanti. Di madri no. Annama’, guarda quanto è bella e dolce tua madre.

Slogan numero quattro: Il silenzio è un contenitore di meraviglie. Prendilo come uno scrigno del meglio di te. Forse troverai anche qualche sorpresa che può non piacerti. Siine felice. Noi valiamo tanto di più, quanto più ci conosciamo, anche nelle ombre. Ricorda che ogni conoscenza di te stessa è una conquista che ti fa appartenere a te stessa. A nessun altro. Gli altri entrano nella nostra vita passo dopo passo, non come una cavalleria all’arrembaggio. Il silenzio è una straordinaria terapia contro il grigiore quotidiano e contro le cose “sempre le stesse”.
Slogan numero cinque: la natura ha detto grazie al Covid-19 perché ha tenuto gli uomini alla larga. La natura che rivive, che respira, che supera le polmoniti bilaterali da inquinamento ostinato. Sai cosa penso Annama’: fossi in te mi farei paladina di una condizione ambientale più umana, più pulita, più respirabile, più limpida. Il vantaggio sarebbe che tu diventassi capace di contemplazione di ogni particolare che ti circonda. Ti accorgeresti anche di una coccinella in un fitto incrocio di erbe spontanee. Diventi la piccola goccia non indifferente e inutile nell’oceano. Se sai coinvolgere i tuoi amici l’affare è fatto. Anna Martina, il Covid-19 passerà, purtroppo dopo aver seminato tanto dolore. Ma un Covid ritornerà se l’uomo, cioè io e tu, non cambia testa.

IL WEB: IMPORTANTE LUOGO EDUCATIVO

*di mons. Simone Giusti*
L’antropologa dei media Mizuko Ito, afferma: «un buon uso delle risorse online può diventare un vero volano per le capacità dei ragazzi, crea comunità, valorizza competenze». Forse non siamo molto abituati a vederla così ma in realtà gli adolescenti iper connessi di oggi vivono come se fossero costantemente immersi in un’enorme biblioteca, dove trova spazio ogni possibile argomento, materia di studio o semplice passatempo. Certo, non tutto è edificante, ma mai prima d’ora si è avuta a disposizione una quantità simile d’informazioni di ottima qualità, alla portata di chiunque. E con un’altissima probabilità di trovare qualcuno con cui condividere le proprie passioni, costruendo così relazioni profonde e durature. Se provassimo a guardare il rapporto fra ragazzi e web da questo punto di vista, faremmo delle scoperte molto interessanti. È quanto è successo come dicevamo all’inizio, a Mizuko Ito, giapponese trapiantata negli Stati Uniti, antropologa dei media, docente all’Università della California a Irvine, fra le prime a studiare sul campo l’uso dello smartphone da parte dei ragazzi e fautrice del ruolo fondamentale del gioco online e in generale dell’utilizzo della Rete come potenti strumenti per  l’apprendimento.

L“apprendimento connesso”(connected learning). È la situazione che si viene a creare quando un ragazzo è incoraggiato a seguire un suo reale interesse, con il sostegno dei propri insegnanti, ma anche dei compagni e di altri adulti di riferimento. A partire da questo coinvolgimento iniziale, che può essere innescato da un argomento non direttamente tratto dal programma formativo, viene a costruirsi un percorso personale di apprendimento. Un animatore potrebbe ad esempio lasciare in qualche caso che sia il ragazzo stesso a decidere su cosa concentrarsi nella sua personale ricerca a casa e scegliere gli argomenti per eventuali approfondimenti. I risultati migliori si ottengono quando gli educatori danno anche consigli su come alimentare le passioni dei ragazzi, fornendo indicazioni di risorse, online e offline. Il solo fatto che un docente prenda del tempo per capire davvero qual è l’interesse di un giovane, è in grado di cambiare radicalmente il rapporto di quel ragazzo con la parrocchia e con il catechismo in generale. Infatti più che la tecnologia sono determinanti le relazioni che si vengono a creare attorno a essa. Se un ragazzo non ha un buon rapporto con il gruppo e con gli adulti che lo seguono, la frequentazione del mondo digitale può anche portare a esiti negativi. Se invece c’è un forte legame con una comunità – famiglia, parrocchia, gruppi online – con cui condividere i propri interessi, l’uso creativo del web, può veramente dare al ragazzo un senso più profondo del suo compito al servizio della propria comunità.
* Tratto da Avvenire “Smartphone, videogame e scuola: le risorse che non ti aspetti”

L’educazione è cosa di cuore

L’espressione “L’educazione è cosa di cuore” è sempre stata attribuita a don Bosco, prete torinese del 1800 che ha fatto dell’educazione un mezzo per attrarre i giovani all’oratorio per poi indicargli strade nuove in cui incamminarsi per il bene della società.

Non sappiamo dalle fonti in quale momento don Bosco avesse pronunciato questa frase, ma siamo certi che rimane una sintesi sapienziale sul suo stile educativo che punta direttamente al centro, arrivando al bersaglio della persona. Dovessimo citarla per esteso, la frase suonerebbe in questo modo: “Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne mette in mano le chiavi”.

Si inizia con un ricordo. La nostra bravura ad educare parte non dalla capacità di guardare avanti, fondamentale per chi sta con i giovani, ma dalla nostra capacità di ricordare. Due cose sono importanti quindi: ricordarci del cuore e di Dio.

Questi capi saldi, in campo educativo, manifestano tutta la loro lungimiranza se considerate insieme alle parole di Papa Francesco sul nostro tempo: “ Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo.”

In questo “cambiamento di epoca”, il passo avanti è fare memoria, ossia ricordarci che non siamo soli in questa opera di evangelizzazione e che il Signore non vive nell’attesa di ricevere un cuore disponibile ma opera con noi stipulando un “patto educativo”,  meglio ancora un’alleanza educativa.

Potremmo dire quindi che l’educazione del cuore è un lavoro “a due”; il Signore ha le chiavi per accedere ai nostri giovani e a noi viene chiesto  il compito entusiasmante di apprendere l’arte da Lui, “ imparare a girare le chiavi nel cuore dei nostri giovani”. Questo è il primo suggerimento che fa da premessa alle nostre programmazioni, alle nostre intuizioni giovanili e alle tecniche di animazione.

Ora possiamo iniziare a parlare di “cuore”. Lo facciamo con le parole di Papa Francesco, che dice in merito: “Essere giovani, più che un’età è uno stato di cuore” (Esortazione Apostolica Cristus Vivit). Arriva a questa espressione spinto dalla Sacra Scrittura, in cui i giovani si presentano: sinceri come Gedeone, capaci di scoprire la forza del proprio cuore come Davide, audaci come Geremia e in grado di cambiare il proprio cuore come accade nella parabola del padre misericordioso, in cui il giovane figlio fa ritorno a casa del padre.  Il “cuore del giovane” continua Papa Francesco, “deve essere considerato terra sacra, portatore di semi di vita divina e davanti alla quale dobbiamo toglierci i saldali per poterci avvicinare ad approfondire il mistero”.

Il cuore giovanile presentato così da Papa Francesco, si presenta come un dono che richiede dei compiti specifici da eseguire. Possiamo quindi tracciare un cammino di accompagnamento del cuore dei giovani che prende le mosse da un passo del Vangelo di Luca: “L’incontro dei discepoli con Gesù mentre si incamminano verso Emmaus”.

Le tappe sono le seguenti. “Gesù in persona si avvicinò a loro” (Lc 24, 15b) l’importanza del silenzio per ascoltare il battito cardiaco del giovane;  “Disse loro: che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?” (Lc 24, 17) in riferimento al compito di capire “per cosa” batte il loro cuore;  “Alcuni dei nostri sono andati alla tomba …, ma lui non l’hanno visto” (Lc 24,24) l’importanza di “accordare il cuore con gli altri”; ed infine, “furono vicini al villaggio dove erano diretti” (Lc 24,28) la costanza di monitorare le frequenze del cuore dei giovani.

Ascoltare il battito cardiaco:  Il cuore va ascoltato. Il battito cardiaco va udito per capire in quale stato si trova. Ci sono giovani che viaggiano con ritmi accelerati distratti dalle molteplici attività usando il cuore come fosse una “pompa meccanica”. Entriamo nel tema del silenzio e non dell’ascolto anche se affini e collegabili. Potremo dire con decisione che l’educatore può imparare l’arte dell’ascolto solo se precedentemente ha appreso l’arte del silenzio. Il silenzio rende possibile l’ascolto. I giovani in tali circostanze posso essere vicini o lontani, bravi o cattivi, educati o scalmanati, il silenzio ci consente di comprendere da quale punto noi stiamo accanto agli altri e siamo pronti ad accoglierli senza pregiudizio. Potremo dire che mentre il silenzio ci illumina sul nostro modo di accostare i giovani, l’ascolto è il frutto di un silenzio maturo che orienta la vita vero ascolto del giovane.

Capire per cosa batte: Il cuore è stato plasmato affinché potesse battere per qualcuno e non per qualcosa. Per comprendere cosa vuol dire “recuperare” il battito cardiaco donando la giusta frequenza, possiamo usare due termini: eccesso ed eccedenza. La prima parola “eccesso”, è molto evocativa, richiama la nausea tipica dei giovani che si concentrano in un’esperienza, esaurendola e spegnendosi in essa completamente. E’ il caso di un cuore che batte per tutto ciò che lo illude: la droga, il successo facile, la ricerca estenuante delle scorciatoie. Questa strada spinge il giovane ad esperienze forti, purtroppo eccessivamente forti da essere classificate come disumane.

La seconda parola è evocativa per noi cristiani che siamo cercatori di esperienze forti contrassegnate dall’ “eccedenza”. Il termine eccedenza non si spiga con “l’eccesso” ma con “’abbondanza”. Il nostro cuore batte quando il flusso del sangue è abbondante e può spingersi verso esperienze che mettono a confronto con la vita e con la quotidianità, senza scorciatoie e mezze misure. La frase di Pier Giorgio Frassati “vivere e non vivacchiare” è molto più esaustiva di altre spiegazioni.

Accordare il cuore con gli altri: Emmaus è la storia di due discepoli visitati dal Signore, insieme, in cammino e verso una meta. Inoltre i discepoli erano parte di una comunità che tentava di ri-costruire l’annuncio del Risorto. Ogni giovane è portatore di un tassello dell’Annuncio del Signore Risorto. Qui la necessità di battere il cuore dei giovani all’unisono: insieme appunto. Ancora il Papa ci aiuta in questo tema: “molti giovani distratti, volano sulla superficie della vita, addormentati e incapaci di coltivare le relazioni profonde e di entrare nel cuore delle cose” (n°19 Chritus Vivit). Occorre far ricoprire ai giovani il gusto di nutrirsi di relazioni vere e sincere, propedeutiche all’incontro con il Signore della vita. Questa rotta di cammino ci viene suggerita direttamente da loro quando li cogliamo perennemente presi dai social e dai loro smart phone: inseguono così la vita dei compagni, le loro “storie”, si mostrano affamati di ogni segmento della vita degli altri. Proprio qui noi dovremo far scaturire l’annuncio del Vangelo, in continuità con la loro sete di umanità, potremo dire in continuità con la fame e sete di umanità che Gesù ha di noi.

L’ultimo punto fa emergere la nostra fede, la nostra “tenuta sulla strada di Emmaus”: la costanza di monitorare le frequenze del cuore dei giovani. La costanza per un animatore è determinante proprio perché i giovani si stanno affacciando alla vita e hanno bisogno di comprendere che essa è fatta di riferimenti. Approfondendo l’immagine del cuore e di Emmaus potremo dire: l’educatore deve continuare a far battere il cuore dei giovani senza fargli mancare il terreno sotto i suoi piedi. Solo una fede adulta può generare passi adulti nella fede. I ragazzi si sentono smarriti nel cammino se fanno del disorientamento il “leitmotiv” della loro vita: il costante disorientamento. Noi come educatori è chiesto di disattivare la “geoloaclizzazione” facile dei loro movimenti e optare per la prossimità nel quotidiano in possono avere le chiavi per poi leggere la prossimità di Gesù che nel Vangelo sembrava inseguire i poveri, i giovani e gli esclusi.

A conclusione di questo piccolo percorso possiamo rifarci ad una frase di San Francesco di Sales, che ha sempre seguito con passione l’umanità disseminata della sua diocesi che guidò con amorevolezza. “Conquistato il cuore dell’uomo conquistato tutto l’uomo”, in altri termini, conquistato  il “cuore dei giovani conquistato tutto il giovane”. A noi la grande sfida che parte oggi, chiedendoci “dove è il nostro cuore” e “per chi batte”, per poi andare sicuri verso i cuori dei più giovani dove Dio ci attende.

Don Stefano Casu

Avengers Endgame – Quando il sacrificio di pochi aiuta la resurrezione di molti

L’ultimo film della saga degli Avengers, Avengers Endgame, è sicuramente il più denso di significati da utilizzare anche in ambito oratoriale. La storia ha il suo inizio nel film precedente in ordine di tempo, Avengers Infinity war, dove il malvagio “Thanos”, il cui nome deriva proprio da Thanatos, la morte nella mitologia greca, riesce a sterminare metà della popolazione dell’Universo con un solo schiocco di dita. E’ la fine di personaggi noti dell’universo Marvel, Spiderman, Doctor Strange ecc… che muoiono dissolvendosi improvvisamente. Per la metà della popolazione che sopravvive la vita non sarà più la stessa: in ogni famiglia infatti qualcuno è scomparso e persino gli animali che popolavano i vari pianeti hanno subito la stessa sorte, lasciando i mondi più silenziosi e tristi. Lo scoraggiamento, lo sconforto, il senso di fallimento sembrano avere la meglio sul piccolo gruppo rimasto dei vendicatori. Qualcuno si lascia andare e perde la sua dignità, qualcuno resta in attesa di qualche evento che possa dare un senso a quello che è successo. Lo stesso Thanos, raggiunto il suo scopo e cioè rimettere in equilibrio la bilancia dell’esistenza dell’intero Universo, torna ad una vita semplice, rurale, lontano da tutto e da tutti. Ma la storia non finisce qui. La morte, come nella visione cristiana, non ha l’ultima parola su tutto. Inizia a rinascere la speranza che qualcosa possa cambiare, che insieme si possa tornare a progettare un futuro diverso da quello che sembrava ormai scritto. E così il resto degli Avengers si organizza per compiere un ultimo tentativo di riportare in vita coloro che si erano dissolti. Ma tutto questo ha un prezzo, ognuno deve mettere da parte i propri particolarismi, le proprie ritrosie e fare un gioco di squadra. Insieme si vince, da soli si perde. Sembra questo il messaggio che potrebbe essere interessante sviluppare anche con i nostri ragazzi a partire dalla visione del film. Ognuno ha un compito da svolgere, più facile o più difficile, ma sempre secondo le possibilità che ci vengono date e il lavoro di ciascuno concorre al bene di tutti. Anche il sacrificio isolato della Vedova Nera, che darà la sua vita per recuperare una delle sei gemme dell’infinito, non basterà a scongiurare la vittoria di Thanos. Ne servirà un altro di sacrifici, questa volta quello di Iron Man, che andrà incontro al suo destino sapendo che quello è l’unico modo per salvare l’umanità. Due morti, due sacrifici per far risorgere definitivamente tutti coloro che erano morti. E qui le analogie con la visione cristiana della resurrezione abbondano, ma anche la forza della prima comunità cristiana, che non si è lasciata sopraffare dalla disperazione per la perdita del loro maestro e Signore piuttosto si è fatta guidare dallo Spirito verso una nuova vita.

Luca Paolini

L’importanza della formazione

La formazione nasce dall’esigenza di avere persone il più possibile preparate e pronte a vivere la vocazione di educare i giovani delle nostre comunità parrocchiali. Tutti coloro che hanno svolto questo servizio sanno che, anche in questo ambito, non si smette mai di imparare anche dopo tanti anni di servizio. L’obiettivo della formazione, a mio avviso, risiede proprio nel limitare il più possibile il processo di “trial and error” che il giovane animatore/catechista affronta. Non ci proponiamo lo scopo di eliminarlo totalmente in quanto sarebbe impossibile, ma semplicemente di gettare delle solide basi su cui si possa fondare l’esperienza della persona che frequenta la formazione.

L’importanza della formazione risiede, non tanto e non solo nella crescita personale spirituale e conoscitiva del catechista che partecipa alla stessa, ma nel beneficio che un animatore ben formato può offrire alla comunità e ai ragazzi. Un’attenzione particolarmente importate è quella di offrire una buona base pratica di formazione, che si concentri sulla simulazione di organizzazione di incontri per varie fasce di età e sulle varie modalità di svolgimento di un incontro, in modo tale che il catechista abbia un ampio “arsenale” di possibilità da cui pescare in base agli obiettivi dell’incontro e del periodo in cui l’incontro è inserito. Può essere utile, inoltre, integrare se necessario le conoscenze in ambito biblico/liturgico dei partecipanti e fornire delle indicazioni di base su come approcciare i bambini di diverse fasce di età.

Nella mia esperienza con la formazione diocesana, ho trovato di fondamentale importanza, per l’arricchimento reciproco e per “rubarsi” qualche idea, il confronto tra le diverse realtà; confrontarsi stimola la possibilità di riflettere e interrogarsi sulle proprie debolezze e di condividere con gli altri i propri talenti.

Penso che un aspetto purtroppo un po’ trascurato nella formazione sia l’impostazione e la gestione di un rapporto positivo e costruttivo con le famiglie dei bambini e dei ragazzi che frequentano la catechesi e l’oratorio, trovo che questa sia una delle sfide più difficili e importanti di un gruppo di catechisti/animatori oggi, ma allo stesso tempo sia imprescindibile se vogliamo costruire un gruppo unito e coeso che vada aldilà del “catechismo dei sacramenti”. A questo in particolare penso che un confronto il più possibile ampio possa essere particolarmente istruttivo e costruttivo specie se si coinvolgono nella formazione coloro che sono stati in grado di instaurare una formula vincente e partecipata per la catechesi familiare.

Il percorso offerto dalla formazione diocesana in tre fasi penso mi abbia aiutato a fermare alcuni punti e apprendere qualche modalità in più su come organizzare e coinvolgere i ragazzi, sarebbe tuttavia auspicabile una partecipazione più diffusa della diocesi sia dal lato dei “formati” sia dal lato dei formatori; questo permetterebbe di avere corsi di formazione più numerosi e magari omogenei per fasce di età dei partecipanti; nel terzo livello, infine, sarebbe bello poter organizzare dei corsi in modo più orizzontale creando il programma intorno alle esigenze sentite dai partecipanti così come avevamo impostato con Don Fabio e Monica Calvaruso lo scorso anno.

Matteo Guido

 

Come vivere l’oratorio nella sequela di Cristo

Qual è lo scopo degli oratori? Molto spesso a questa domanda si risponde con affermazioni diverse, ma quali mai si pone l’attenzione su quello che è il centro di tutta l’attività oratoriale: Gesù Cristo.

Se manca questo scopo centrale “la sequela di Cristo”, possiamo avere bellissime attività o organizzazioni che però falliscono il loro impegno.

Riconosciamo quindi all’oratorio la funzione di primo annuncio cristiano e quindi è necessario che ogni animatore, responsabile o collaboratore dell’oratorio, viva prima di tutto la sua relazione con Cristo.

Dopo questa premessa necessaria, cerchiamo di vedere come vivere l’oratorio nella sequela di Cristo. Mostreremo un luogo necessario e due attenzioni da mettere in campo.

Il luogo è comprensibile, ogni oratorio deve avere una cappella del Santissimo Sacramento, anche se piccola deve essere centrale nella struttura e dovrebbe essere almeno capiente affinché almeno gli animatori di un gruppo possano pregare insieme. Essa deve essere il luogo davanti la quale ogni bambino o ragazzo o giovane può passare davanti o entrare per pregare.

Sembra superfluo in questa sede sottolineare che lo stesso progetto educativo deve avere come obiettivo l’annuncio e la sequela di Cristo, per cui non mi soffermo su questo aspetto. Ma è necessari mettere in evidenza due atteggiamenti da parte ci coloro che sono chiamati a formare (risposabili o direttori di oratorio) e da parte di coloro che sono gli animatori.

I formatori devono per primi vivere l’oratorio come luogo principale in cui stanno rispondendo alla chiamata di Gesù a seguirlo, in questo servizio di annuncio, la figura biblica che può essere accostata a questa figura è San Paolo, che vive per primo l’incontro trasformante con Cristo, diventa discepolo nella Chiesa e annunciatore nel mondo.

Gli animatori che svolgono il loro servizio in oratorio devono essere capaci di vivere la loro fede per primi ed essere aiutati a verificare la chiamata che il Signore fa loro per servire i fratelli. Quesito attraverso la preghiera, l’ascolto della Parola e l’adorazione, non dico la Messa perché è un’ovvietà e viene prima di ogni cosa. Comprendiamo quindi che per vivere l’oratorio nella sequela di Cristo è necessario avere un rapporto con Lui personale e intimo, non sentimentalistico o fondato solo sull’aspetto della filantropia o del divertimento che portano spesso alla gratificazione di sé e non alla sequela di Cristo.

Più volte ho parlato di sequela e mi sembra opportuno specificare cosa intendiamo con questo termine. Faccio riferimento a un brano evangelico poco comune, citato spesso per la figura di coloro che sono chiamati al sacerdozio ministeriale. Il brano è quello di Gv 21 Gesù dice a Pietro tu quando eri giovane andavi dove volevi quando sarai vecchio un altro ti condurrà dove non vuoi1 poi aggiunse Seguimi!

Ecco in questo seguimi vedo la centralità della sequela, non è seguire e mettersi sulle orme del maestro soltanto, ma è rinunciare a se stessi per un bene maggiore Gesù. Noi vogliamo bene a Cristo e ai ragazzi dell’oratorio per i quali faremo tutto, ma attenzione quanto è vero? Dovrebbe essere sempre la domanda da farsi ogni volta che entriamo e usciamo dall’oratorio: oggi ho seguito Gesù? Che significa: mi sono comportato come avrebbe fatto lui, ho fatto si che chi mi ha incontrato ha visto Lui nei miei gesti, nelle mie parole, nei mie sguardi?

Questo comprendiamo che è possibile solo se ci nutriamo di lui, allora come si vive nell’oratorio, la sequela di Cristo: con la preghiera la Parola e l’Eucarestia.

Ma direte i bambini e i ragazzi non dovrebbero vivere anche loro l’oratorio nella sequela di Cristo? Certo ma questo sarà direttamente proporzionale alla misura in cui coloro che sono chiamati ad attuare il progetto educativo lo vivono.

Non servono maestri ma testimoni, diceva S. Paolo VI, e questo mi sembra la risposta più adeguata! Buona Sequela!

Don Fabio Menicagli

Che cosa vuol dire essere animatore oggi?

Cosa vuol dire essere animatori al giorno d’oggi? È una domanda che accompagna il mio cammino di consacrata da diversi anni. Facendo esperienza in diverse realtà dell’Italia, ho avuto la fortuna di poter conoscere molte persone e luoghi, ognuno con caratteristiche diverse.

Stare con i giovani è da sempre la cosa che più mi attira.

Prima di intraprendere il cammino di consacrata nel mio Istituto, ho avuto la gioia di incontrare diverse persone con una profonda passione per la realtà giovanile. Mentre nel mio cuore si faceva sempre più spazio la chiamata di Dio, sentivo fortemente di voler donare ai ragazzi che avrei incontrato, tutta la bellezza ricevuta da quei piccoli ma grandi testimoni che avevo conosciuto e che mi avevano accompagnata nella mia adolescenza. Mi ripetevo che quei sorrisi veri, quell’amore che riuscivano a trasmettermi (che veniva da un Amore più grande) lo dovevo ridonare, non potevo tenerlo per me. In questo modo il Signore ha iniziato a farsi spazio nella mia vita.

Penso che possiamo fare tanti corsi belli e preziosi per poter imparare ma credo che la cosa fondamentale per essere animatori oggi, secondo la mia piccola esperienza, vuol dire questo: ESSERCI!

I giovani hanno bisogno di presenze vere, pazienti, coerenti, che diano testimonianza che vale la pena vivere in pienezza, senza accontentarsi di ciò che la società impone e propone come alternativa più “facile” e meno impegnativa da scegliere. L’animatore deve voler spendere il suo tempo che a volte può sembrare perso e non portare, apparentemente, nessun frutto. Ci si deve saper sporcare le mani.  Essere animatori significa mettersi a servizio dei ragazzi per aiutarli a crescere.

Dentro ciascuno di noi c’è una grande capacità che ci apre alla bellezza della vita: la capacità di amare. Stare con i ragazzi per poter conoscerli il più possibile e amarli per poterli capire.

Ma tutto questo non lo si può imporre. Essere e fare l’animatore non è un obbligo, ma una scelta.

Bisogna avere la volontà di stare a contatto con i più giovani e di viverci in mezzo.

È un modo di trasmettere un’esperienza: è dire con l’esempio che bisogna essere innamorati della vita, vivendola con serenità e gioia, con la voglia di mettersi in gioco, puntando al positivo.

Non bisogna mai mollare con i giovani, la vita non è una passeggiata senza ostacoli per nessuno, i tempi di crescita e di maturazione non sono mai gli stessi.  L’animatore deve tirar fuori il bene che c’è dentro ogni ragazzo. Non esistono ragazzi “totalmente” cattivi: in ogni ragazzo c’è un punto accessibile al bene. È questo punto che l’animatore deve scovare per far divenire i giovani a lui affidati “buoni cristiani e onesti cittadini”.

L’animatore è cosciente del compito che gli è stato affidato e fa di tutto per non deludere chi ha avuto fiducia in lui. Sa che ogni suo comportamento può avere conseguenze sui ragazzi quindi agisce sempre con coscienza e intelligenza.

Una condizione indispensabile per essere animatori in parrocchia è testimoniare l’amore di Cristo: è questo ciò che ci distingue dagli animatori dei villaggi turistici. Il fuoco che arde nel cuore di un animatore è l’amore per Lui! È questo fuoco che accompagna l’animatore in ogni momento del suo servizio! Non siamo animatori da spiaggia, quello è bellissimo a tanto faticoso a volte, ma chi è chiamato a farlo in determinati contesti come quello della Parrocchia, deve esserne convinto perché i giovani che ci vengono affidati sono molto attenti e critici verso chi li guida. Non si può “predicare bene e razzolare male”.

Stando con i ragazzi, bisogna essere sempre pronto ad ascoltare i loro problemi, senza mai banalizzarli. Ma saremo persone veramente disposte ad ascoltare gli altri solamente se saremo capaci di fermarci, nella continua corsa delle innumerevoli cosa che abbiamo da fare, per metterci in ascolto della Parola che Dio ci vuole comunicare ogni giorno.

È un’avventura meravigliosa, quella dell’animatore perché è meraviglioso il mondo giovanile.  Non è facile perché la società cambia continuamente e così anche tutti noi ma credo che ce ne sia davvero bisogno. Se si dice che i giovani sono il futuro… beh, allora su questo futuro ci si deve credere e investire sul serio e con tutta la passione che si ha nel cuore!

Sr Giulia De Luca

Animare un grest: 2 esperienze

L’esperienza della parrocchia San Benedetto a Livorno

La  parrocchia di S. Benedetto offre il servizio dell’oratorio estivo al quartiere da ormai molti anni. Questo progetto è partito dal nostro parroco Tomasz che, se non sbaglio, nel 2012 mise a disposizione i locali dell’oratorio per i bambini del quartiere e insieme a un gruppettino di ragazzi e di adulti volontari organizzò un vero e proprio oratorio estivo. Anche se molto piccola, ho avuto la fortuna di partecipare ad ogni oratorio sempre e solo come animatrice, dico fortuna perché ho visto mutare e crescere questo grande progetto che sento anche un po’ mio! I primi anni avevamo pochi bambini iscritti  e non avevamo un tema che ci accompagnasse per tutta la durata dell’oratorio, avevamo i momenti di preghiera (sia cristiana che di altre religioni per rispetto di ogni bambino), i momenti di gioco, vari laboratori ma non una storia, non un filo conduttore che ci accompagnasse giorno dopo giorno. I numeri dei bambini e dei ragazzi iscritti inizia a crescere anno dopo anno e l’oratorio inizia a mutare. Nel 2014 don Tomasz propone di intraprendere i temi e le storie degli oratori estivi del FOM di Milano e da questo momento l’oratorio cambia in tutto e per tutto. Cresce anche il numero di animatori e questo ci aiuta a organizzare meglio ogni singola giornata! Storie, balli, preghiere, giochi, gruppi di riflessione! I bambini si divertono e imparano giocando, i ragazzi riflettono su temi improntati, gli animatori si mettono in gioco! Posso dire che la mia esperienza in tutti questi anni da Animatrice sia stata molto bella ed istruttiva! Adoravo svegliarmi presto per andare ad animare quei bambini che, anche se spesso mi facevano ammattire, mi riempivano il cuore di gioia! Non c’è niente di più bello dei loro sorrisi, dei loro abbracci, dei loro “ti voglio bene” o “sei la mia Animatrice preferita” sussurrato all’orecchio! La gioia nei loro occhi faceva dimenticare la fatica che ognuno di noi organizzatori aveva provato per far sì che tutto fosse perfetto, quei sorrisi ti facevano capire che tutto il nostro impegno era servito a qualcosa, quelle letterine e quei disegni lasciati nascosti dove tieni la borsa ti facevano capire che nonostante le brontolate che potevano ricevere quando combinavano qualcosa che non dovevano tu per loro rimanevi importante, rimanevi il punto di riferimento, colui o colei che cercano quando hanno bisogno di aiuto o hanno voglia di giocare! Fare l’animatrice mi è servito veramente tanto, come ho già detto prima, dopo pochi anni ho iniziato a sentire questo progetto anche un po’ mio e mi sono impegnata per portarlo avanti con tutte le mie forze! Non riesco ad immaginare un anno senza oratorio estivo, per questo spero con tutta me stessa che i nuovi giovani della parrocchia possano portare avanti questo grande progetto anche quando noi “vecchi animatori” non potremo più farlo, perché questo è veramente un grande servizio che la parrocchia offre alle famiglie del quartiere e spero veramente che tutto l’impegno messo in questi anni dal nostro parroco, da noi ragazzi e dagli adulti che si rendevano disponibili non sia stato vano!  In ogni caso, il ricordo di tutti questi anni rimarrà ben impresso nel mio cuore come tutti i nomi dei ragazzi e dei bambini che ho incontrato e visto crescere! È bello vedere che a distanza di anni tanti di loro ti salutano da lontano per strada o ti corrono incontro per abbracciarti, questo vuol dire che abbiamo lasciato un segno e credo sia veramente una cosa bellissima.

Martina Cecioni

Vivere l’oratorio: l’esperienza alla parrocchia del Sacro Cuore  Salesiani a Livorno

Oltre ad animare un gruppo di ragazzi del percorso di iniziazione cristiana, ho deciso di dedicare il mio tempo anche ad animare l’oratorio quotidiano. Ma cosa vuol dire animare nel quotidiano? Una possibile risposta potrebbe essere: Mettersi a servizio dei ragazzi per aiutarli a crescere, trasmettendo loro il “principio” della vita, servire gli altri perché li sento importanti. Cosa significa? Significa sostanzialmente educarLi e educarCi ad essere “Buoni cristiani, onesti cittadini e futuri abitatori del cielo”. Con questa frase San Giovanni Bosco ci insegna come educare i ragazzi, sia nei vari percorsi di iniziazione cristiana sia, in modo più continuativo, nel quotidiano dell’oratorio. “Ma i ragazzi che vengono all’oratorio non tutti sono cristiani”. Vero, ma come cristiani abbiamo il dovere di accogliere le diversità dei ragazzi, di tutti i tipi: razziale, religiosa, culturale, sociale, economica… Ricordandoci che l’obiettivo finale è il paradiso, essere felici con Dio. Come mettere dunque in pratica le prime due espressioni? Parto dalla seconda che è più semplice: Educare ad essere buoni cittadini vuol dire fare le azioni che svolgiamo quotidianamente con allegria: studiare, giocare, rispettare le regole, scherzare con gli amici… Facendolo con allegria. La prima espressione è un po’ più spinosa: dobbiamo educare i ragazzi all’essere buoni cristiani non a parole, ma con tutte quelle piccole azioni quotidiane che facciamo a modello di quello che Gesù ci ha insegnato. Potremmo dire “Testimoniamo per quello che siamo “. L’animatore non può scindere il proprio servizio dalla sua fede. Sono due cose che vanno in parallelo tra loro. Nel nostro DNA di cristiani sono radicati l’aiuto per il prossimo e la fede. Per poter mettere in pratica queste cose dobbiamo ESSERE Animatori e non FARE gli Animatori. Perché essere animatore vuol dire che la tua esperienza quotidiana non è circoscritta allo stare in oratorio, ma si allarga h24, 7 giorni su 7.

Possiamo dunque rappresentare con qualche parola l’identikit dell’animatore dell’oratorio. Deve essere: Allegro, “uno che non molla mai”, un educatore, coerente, responsabile, entusiasta, innamorato di Cristo, un buon ascoltatore, ma soprattutto umile a modello, come dicevamo prima, di Gesù.

Dunque, non scoraggiamoci leggendo tutti questi aggettivi, perché l’essere animatore non è una cosa che succede da un giorno ad un altro, ma dobbiamo continuamente educarCi ad essere anche noi in primis “Buoni cristiani, onesti cittadini e futuri abitatori del cielo”.

Giorgio Ciccotelli